QUARESIMA
Il mondo ha bisogno di un richiamo forte al valore della quaresima; tre sono le realtà che dominano
il nostro cammino quaresimale:
LA CROCE, abbracciata da Cristo, è altare dove Lui si offre ed offre se stesso al Padre per la salvezza dell’uomo.
La CROCE diventa il cuore e il centro della nostra vita cristiana. Essa è il segno del nostro MORIRE PER VIVERE.
Ce lo insegna Gesù: “Se il grano di frumento cadendo a terra non muore, resta solo. Se muore, rinasce moltiplicato”.
In questo insegnamento c’è la grande legge del cammino quaresimale: BISOGNA MORIRE PER VIVERE, cioè, la vita nasce e sboccia dove c’è la morte. Bisogna morire all’egoismo, alla superbia, al proprio “io”, a tutto ciò che non piace a Cristo, a tutto ciò che c’è di mondano dentro e fuori di noi:… la concupiscenza della carne, degli occhi, della vita.
LA SECONDA DIMENSIONE: LA PENITENZA!
Ossia, l’esigenza di una continua conversione di una costante verifica evangelica da fare con forza
e costanza.
Penitenza, significa: mutamento totale, rinnovamento intimo del cuore, del sentire, del giudicare, del vivere…
Il membro del Movimento Laicale Passionista non potrà dire di vivere lo spirito della quaresima solo perché si fa carico di determinate pratiche di pietà, come la Messa, la “Via Crucis”, il digiuno, l’astinenza, la carità verso il povero…
Queste pratiche concrete, sono valide nella misura in cui sono espressione del CAPOVOLGIMENTO INTERIORE della propria situazione.
Dobbiamo prendere coscienza che la QUARESIMA è tempo di CONVERSIONE. Purtroppo per troppo tempo abbiamo accantonato il valore della Quaresima come tempo e ambiente di conversione.
La nostra attuale pratica quaresimale non presenta molti stimoli alla conversione. Se vogliamo essere autentici “cristiani” dobbiamo svegliare in noi e alimentare di continuo la conversione al
Vangelo della passione di Gesù. La Quaresima deve divenire tempo favorevole, occasione per riscoprire che la Pasqua si celebra dove c’è un cuore pentito e rinnovato, libero e convertito.
LA TERZA DIMENSIONE: LA VOCAZIONE BATTESIMALE.
Oggi, anche tra noi cosiddetti “cristiani praticanti” c’è una grave ignoranza religiosa sul battesimo.
Riscoprire il battesimo , deve diventare la preoccupazione più impegnativa sempre, ma specialmente nella Quaresima.
Il Battesimo ha cambiato totalmente la nostra condizione. E’ un “dono divino” e comporta esigenze divine di vita; è rinascita e comporta, esige, “novità di vita” è liberazione dal peccato e perciò
esclude ogni compromesso con il male; è incorporazione alla Chiesa e perciò impegna a una comunione di vita e di solidarietà con i fratelli; è speranza della gloria futura perciò deve orientare
la vita nostra verso il ritorno glorioso del Signore.
LE PRATICHE DA VIVERE NELLA QUARESIMA: San Paolo della Croce ai passionisti del suo tempo consigliava tre pratiche religiose per la Quaresima: IL DIGIUNO, LA PREGHIERA, LA
CARITA’.
- IL DIGIUNO. Il digiuno, la sofferenza, il sacrificio, l’abnegazione devono far parte del nostro cammino quaresimale. Se non pratichiamo la CROCE, se non acconsentiamo amorosamente alla
croce, non possiamo celebrare la Pasqua del Signore. Dobbiamo, come cristiani, praticare il digiuno e quanto è connesso ad esso: il sacrificio, la sofferenza, l’abnegazione…
San Paolo della croce nell’indicare le pratiche penitenziali della Quaresima, mirava a creare uno stilo penitenziale omogeneo, comunitario, unitario.
Dobbiamo, dietro questa pedagogia di Paolo della Croce, assumere collettivamente, come “cristiani” uno stile uniforme di penitenza quaresimale.
Vi pare fuori posto ricordare quanto adempivano i primi passionisti?
Tre volte la settimana si astenevano dalle carni; si privavano di incontrare persone esterne;
trascorrevano i quaranta giorni di Quaresima nel silenzio, nella solitudine del ritiro, nella contemplazione della passione di Gesù, si prestavano nei servizi più umile della comunità, come lavare i piatti o le pentole, chiedere in refettorio ai confratelli il pane da mangiare, ecc.. Si
privavano di parlare per l’intera giornata in tempi programmati dal superiore; si esercitavano nel disprezzo di se stessi, prostrandosi a terra e chiedendo la carità di raccomandarli alla divina
misericordia. Non dico che noi dobbiamo ripetere quelle pratiche… però la pratica dello spirito di quelle penitenze possiamo attuarla. Non vi pare?!
- LA PREGHIERA. Per preghiera San Paolo della croce intendeva tutto ciò che aiutava l’anima del religioso a vivere con Dio. Ricordava che tutta la vita spirituale consisteva nello
stare uniti a Gesù e indicava anche i mezzi per realizzare tale unione: la meditazione sulla passione del Signore; la Via Crucis, la visita prolungata al SS/mo Sacramento, l’allontanamento di tutto ciò che potesse distogliere dall’unione con Dio; la purità d’intenzione in ogni cosa che si faceva; la moltiplicazione durante la giornata degli atti di unione e di offerta a Gesù crocifisso; andare col pensiero alle ore drammatiche della passione di Gesù, a cominciare dal Getsemani fino alla morte in croce.
- LA CARITA’. San Paolo della croce considerava la carità il distintivo dei suoi passionisti.
E voleva che l’attingessero dalla croce, perché sulla croce si manifesta la suprema prova dell’amore. Diceva che la carità prolunga nella comunità la presenza di Gesù e sospinge la
stessa a farsi carico di amore per quelli che non hanno amore.
Padre Eugenio Circo (Passionista)
1. Le tentazioni del Redentore
Non era indegno del nostro Redentore il voler essere tentato, lui che ;era
venuto per essere ucciso. Era anzi giusto che vincesse le nostre tentazioni
con le sue tentazioni, dato che era venuto a vincere la nostra morte con la sua
morte. Ma dobbiamo sapere che la tentazione passa per tre stadi: la suggestione,
la dilettazione e il consenso. Noi, quando siamo tentati, cadiamo per lo più nella
dilettazione o addirittura nel consenso, perché siamo nati da una carne di
peccato e portiamo in noi stessi ciò che ci muove tante battaglie. Ma Dio, che
s’incarnò nel grembo della Vergine, venne nel mondo senza peccato e non
provò in sè alcuna contraddizione. Egli poté dunque essere tentato per
suggestione, ma l’anima sua non provò la compiacenza del peccato. Pertanto
tutta quella tentazione diabolica fu all’esterno, non all’interno.
Ma se guardiamo l’ordine secondo cui fu tentato, capiremo quanto bene
noi siamo stati liberati dalla tentazione. L’antico avversario si rivolse contro il
primo Adamo, nostro padre, con tre tentazioni, poiché lo tentò di gola, di
vanagloria e di avarizia; ma tentandolo lo vinse, perché lo sottomise a sé
mediante il consenso. Lo tentò di gola quando gli mostrò il frutto dell’albero
proibito, perché ne mangiasse. Lo tentò poi di vanagloria quando disse: "Sarete
simili a Dio" (Gen 3,5). Lo tentò di avarizia quando disse: "Conoscerete il bene
e il male". L’avarizia infatti non riguarda soltanto il denaro, ma anche gli onori.
Giustamente si dice avarizia il desiderio smodato di stare in alto. Se il carpire
onori non appartenesse all’avarizia, Paolo non direbbe, riguardo al Figlio
unigenito di Dio: "Non stimò una rapina la sua uguaglianza con Dio" (Fil 2,6).
In ciò poi il diavolo attrasse il nostro padre alla superbia, poiché lo spinse a
quel tipo di avarizia che è il desiderio di eccellere.
Ma con quegli stessi mezzi coi quali abbatté il primo Adamo, fu vinto dal
secondo Adamo da lui tentato. [Il diavolo] lo tenta infatti nella gola quando
dice: "Comanda che queste pietre diventino pane". Lo tenta di vanagloria
quando dice: Se tu sei figlio di Dio, gettati di sotto. Lo tenta con l’avarizia degli
onori quando mostra tutti i regni del mondo, dicendo: "Tutto io ti darò, se ti
prostri e mi adori". Ma è vinto dal secondo Adamo proprio con quei mezzi coi
quali si vantava di aver vinto il primo, così da uscire dai nostri cuori, scornato,
passando per quella stessa strada per la quale si era introdotto, per dominarci.
Ma c’è un’altra cosa, fratelli carissimi, che dobbiamo considerare in questa
tentazione del Signore; tentato dal diavolo, il Signore risponde con i precetti
della Sacra Scrittura, e colui che, essendo quella Parola, poteva cacciare il
tentatore nell’abisso, non mostrò la virtù della sua potenza ma soltanto ripeté i
divini comandi della Scrittura, per darci così l’esempio della sua pazienza; di
modo che, tutte le volte che soffriamo a causa di uomini malvagi, siamo portati
a rispondere con la dottrina piuttosto che con la vendetta. Pensate quanto è
grande la pazienza di Dio e quanto è grande la nostra impazienza! Noi, se siamo
provocati con qualche ingiuria o con qualche offesa, ci infuriamo e ci
vendichiamo quanto possiamo, o minacciamo ciò che non possiamo fare.
Invece il Signore sperimentò l’avversità del diavolo e non gli rispose se non con
parole di mitezza. Sopportò colui che poteva punire, affinché gli tornasse a
maggior gloria il fatto di aver vinto il nemico non annientandolo, ma bensì
sopportandolo.
Bisogna fare attenzione a quello che segue, che cioè gli angeli lo servivano
dopo che il diavolo se ne fu andato. Cos’altro si ricava da ciò se non la duplice
natura nell’unità della persona? È un uomo, infatti, colui che il diavolo tenta,
ma è anche Dio colui che è servito dagli angeli. Riconosciamo dunque in lui la
nostra natura, in quanto se il diavolo non l’avesse conosciuto uomo, non
l’avrebbe tentato, adoriamo in lui la divinità, in quanto se non fosse Dio che è al
di sopra di tutte le cose, gli angeli non lo servirebbero.
Ma poiché questa lettura si adatta al presente periodo - infatti, noi che
iniziamo il tempo quaresimale, abbiamo udito che la penitenza del nostro
Redentore è durata quaranta giorni -, dobbiamo cercar di capire perché questa
penitenza è osservata per quaranta giorni... Mentre l’anno è composto di
trecentosessantacinque giorni, noi facciamo penitenza per trentasei giorni, come
se dessimo a Dio la decima sul nostro anno, affinché, dopo aver vissuto per noi
stessi il resto dell’anno, ci mortifichiamo nell’astinenza in onore del nostro
Creatore per la decima parte dell’anno stesso. Perciò, fratelli carissimi, come
nella Legge ci è imposto di offrire le decime di tutte le cose (cf. Lv 27,30s),
così dovete cercare di offrire a lui anche la decima dei vostri giorni. Ognuno,
secondo quanto gli è possibile, maceri la sua carne e ne affligga le brame, ne
uccida le concupiscenze disoneste, affinché, secondo la parola di Paolo,
divenga una vittima viva (cf. Rm 12,1). Certo la vittima è immolata ed è viva,
quando l’uomo non muore e tuttavia uccide se stesso nei desideri carnali. La
nostra carne, soddisfatta, ci portò al peccato; mortificata, ci conduca al perdono.
Colui che fu autore della nostra morte trasgredì i precetti della vita mediante il
frutto dell’albero proibito. Noi dunque, che ci siamo allontanati dalle gioie del
paradiso per colpa del cibo, procuriamo di tornare ad esse grazie all’astinenza.
Ma nessuno creda che l’astinenza da sola possa bastargli dal momento che
il Signore dice per bocca del Profeta: "Non è forse maggiore di questo il
digiuno che bramo?", aggiungendo: "Dividi il pane con l’affamato, e introduci
in casa tua i miseri, senza tetto; quando vedrai uno nudo, soccorrilo, e non
disprezzare la tua carne" (Is 58,6.7). Dio dunque gradisce quel digiuno che una
mano piena di elemosine presenta ai suoi occhi, quel digiuno che si congiunge
all’amore del prossimo ed è ornato dalla pietà. Ciò che togli a te stesso, dallo a
un altro, affinché ciò di cui si affligge la tua carne serva di ristoro alla carne del
povero. Così infatti dice il Signore per bocca del Profeta: "Quando avete fatto
digiuni e lamenti, forse avete digiunato per me? E quando avete mangiato e
bevuto, forse non avete mangiato bevuto per voi stessi?" (Zc 7,5-6). Infatti
mangia e beve per sé chi prende i cibi del corpo, i quali sono donati a tutti dal
Creatore, senza parteciparli ai bisognosi. E digiuna per sé chi non distribuisce ai
poveri quelle cose di cui si è privato temporaneamente, ma anzi le serba per
darle al suo ventre in altra occasione. Perciò è detto per bocca di Gioele:
"Santificate il digiuno" (Gl 1,14; 2,15). Santificare il digiuno significa offrire
un’astinenza dalle carni degna di Dio, dopo aver aggiunto altri doni. Cessi l’ira,
si plachino i litigi. Invano la carne è afflitta, se l’animo non si frena nei suoi
malvagi desideri, come dice il Signore per bocca del Profeta: "Ecco, nel giorno
del vostro digiuno si trova la vostra volontà. Ecco, voi digiunate fra litigi e
alterchi e colpendo con pugni iniqui, e ricercate tutti i vostri debitori" (Is 58,3).
Né commette ingiustizia chi richiede dal suo debitore quanto gli aveva prestato;
è bene tuttavia che quando uno si macera nella penitenza, si astenga anche da
ciò che gli spetta con giustizia. Così Dio perdona a noi, afflitti e penitenti, ciò
che abbiamo fatto di male, se per amor suo rinunciamo anche a ciò che
giustamente potremmo esigere.
Gregorio Magno, Hom. 16, 1-6
2. Non c’indurre in tentazione
«E non c’indurre in tentazione» Signore. C’insegna forse il Signore a
pregare di non essere mai tentati? Perché dice altrove: "L’uomo non tentato non
è provato" (Sir 34,10; Rm 5,3-4) e di nuovo: "Considerate fratelli suprema gioia
quando cadete in diverse tentazioni" (Gc 1,2)? Però entrare in tentazione non
è farsi sommergere dalla tentazione. Infatti la tentazione sembra come un
torrente di difficile passaggio. Alcuni che nelle tentazioni non si lasciano
sommergere l’attraversano. Sono bravi nuotatori che non si fanno trascinare dal
torrente; Gli altri che tali non sono, entrati ne vengono sommersi. Così, ad
esempio, Giuda entrato nella tentazione dell’avarizia non la superò, ma
sommerso materialmente e spiritualmente si impiccò. Pietro entrò nella
tentazione di rinnegamento, ma superandola non ne fu sommerso. Attraversò [il
torrente] con coraggio e non ne fu trascinato.
Senti ancora in un altro passo il coro di santi perfetti, che ringrazia di
essere scampato alla tentazione. "Tu ci hai provato, o Dio, come l’argento ci
passasti al fuoco. Tu ci hai spinto nella rete, tu hai posto sulle nostre spalle le
sofferente; tu hai fatto passare gli uomini sulle nostre teste. Abbiamo
attraversato il fuoco e l’acqua e ci hai sospinto verso il refrigerio" (Sal 66,10-
12). Vedi che parlano della loro traversata senza essere andati a fondo? (cf. Sal
69,15). E tu «ci hai sospinto al refrigerio». Entrare nel refrigerio è essere
liberato dalla tentazione.
Cirillo di Gerusalemme, Catech. V Mistag. 17
3. La tentazione nel deserto (Lc 4,1-13)
In cambio della triplice vittoria
Quando fosti tentato nel deserto,
Fa’ che l’infausto Principe io vinca,
Il Tiranno che rendesi invisibile.
Sulla parola del tuo comandamento
Ch’io cammini sull’aspide e la vipera;
Ch’io schiacci sotto la pianta dei piedi
La testa del Drago attorcigliato.
Nerses Snorhali, Jesus, 343-344
II DOMENICA DI QUARESIMA
1. Lezione della Trasfigurazione per la Chiesa e i cristiani
La lettura del Vangelo, carissimi, che attraverso le orecchie del corpo ha
colpito l’udito interiore della nostra anima, ci invita all’intelligenza di un
grande mistero: noi arriveremo a intenderla più facilmente, con l’ispirazione
della grazia di Dio, se riportiamo la nostra attenzione alle circostanze che sono
state narrate un po’ prima. Quando infatti il Salvatore del genere umano, Gesù
Cristo, poneva le fondamenta di questa fede che richiama alla vita (cf. Rm 1,17)
tanto gli empi quanto morti, quando ammaestrava i suoi discepoli sia con gli
ammonimenti della dottrina sia con i miracoli delle opere, era appunto perché si
credesse che lo stesso Cristo è contemporaneamente l’unigenito Figlio di Dio e
Figlio dell’uomo. Poiché l’uno senza l’altro non poteva servire alla salvezza, ed
era eguale il pericolo di credere il Signore Gesù Cristo o Dio solamente senza
l’uomo, o uomo solamente senza Dio: bisogna, infatti, confessare
parallelamente l’uno e l’altro, che la vera divinità è nell’uomo come la vera
natura umana è in Dio. Volendo dunque confermare la conoscenza così salutare
di questa fede, [il Signore] aveva chiesto ai suoi discepoli cosa, in mezzo a
opinioni diverse di altri, essi stessi credessero a suo riguardo, o cosa
pensassero: fu allora che l’apostolo Pietro, per effetto di una rivelazione del
Padre che è nei cieli, oltrepassando le apparenze corporali e trascendendo
l’aspetto umano, vide con gli occhi dell’anima il Figlio del Dio vivo e confessò
la gloria della divinità, perch‚ non guardò alla sola sostanza della carne e del
sangue. E fu così gradito [a Dio] per la sublimità di questa fede, che ricevette la
gioia della beatitudine e fu dotato della santa fermezza propria di una pietra
inamovibile - pietra sulla quale sarebbe stata fondata la Chiesa per prevalere
sulle porte dell’inferno e sulle leggi della morte -, di modo che nient’altro
venisse sancito in cielo per sciogliere o legare chicchessia, se non ciò che la
decisione di Pietro avesse stabilito.
Ma questa intelligenza così sublime, oggetto di lode, carissimi, doveva
essere istruita dal mistero della natura inferiore di Cristo, per timore che la fede
dell’apostolo, elevata fino alla gloria di confessare la divinità, giudicasse
sconveniente e indegna del Dio impassibile la nostra debolezza da lui assunta, e
credesse la natura umana già glorificata in lui al punto di non poter essere né
intaccata dal supplizio né distrutta dalla morte. E siccome il Signore diceva che
doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, degli
scribi e dei principi dei sacerdoti, essere messo a morte e risuscitare il terzo
giorno (cf. Mt 16,21; 20,17-19), fu per tal motivo che san Pietro, illuminato da
una luce superiore e tutto infiammato dell’ardentissima confessione da lui fatta
del Figlio di Dio, respinse con un disgusto spontaneo e, pensava lui, religioso la
prospettiva degli insulti ignominiosi (cf. Lc 18,32) e di una morte disonorante e
crudele; Gesù lo riprese allora con un dolce rimprovero e gli ispirò il desiderio
di condividere la sua passione. L’esortazione successiva del Salvatore suggerì
infatti e insegnò che quelli che volevano seguirlo dovevano rinnegare sé stessi e
ritenere una cosa da nulla la perdita dei beni temporali in confronto alla
speranza di quelli eterni; infine che avrebbe salvato la propria anima chi non
avrebbe temuto di perderla per Cristo (cf. Mt 16,25).
Ma bisognava che gli apostoli concepissero veramente nel loro cuore
questa forte e felice fermezza, e non tremassero davanti alla durezza della croce
che dovevano prendere; bisognava che non arrossissero del supplizio di Cristo,
e che non ritenessero vergognosa per lui quella pazienza con la quale egli
doveva subire i rigori della passione senza perdere la gloria del dominio. "Gesù
prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello" (Mt 17,1), e avendoli
presi in disparte, salì con essi su un alto monte, e manifestò loro il fulgore della
sua gloria: poiché, pur avendo essi compreso che la maestà di Dio era in lui,
ignoravano ancora la potenza di quel corpo che nascondeva la divinità. Ecco
perché aveva promesso in termini appropriati e precisi che alcuni dei discepoli
presenti non avrebbero gustato la morte prima di vedere il Figlio dell’uomo
venire nel suo regno (cf. Mt 16,28), cioè nello splendore regale che conveniva
specialmente alla natura umana che egli aveva assunto, e che volle rendere
visibile a questi tre uomini. Perché quanto alla visione ineffabile e inaccessibile
della stessa divinità, visione riservata ai cuori puri nella vita eterna (cf. Mt 5,8),
degli esseri ancora rivestiti di carne mortale non potevano in alcun modo né
contemplarla né vederla.
Il Signore svela dunque la sua gloria in presenza di testimoni scelti e
illumina di tale splendore questa forma corporale che lui ha comune con tutti,
che il suo volto diviene simile al fulgore del sole, e le sue vesti sono
paragonabili al candore delle nevi (cf. Mt 17,2). Certamente questa
trasfigurazione aveva soprattutto lo scopo di eliminare dal cuore dei discepoli lo
scandalo della croce, affinché l’umiltà della passione volontariamente subita
non turbasse la fede di coloro ai quali sarebbe stata rivelata la sublimità della
dignità nascosta. Ma con eguale previdenza egli dava un fondamento alla
speranza della santa Chiesa, di modo che tutto il corpo di Cristo venisse a
conoscenza di quale trasformazione sarebbe stato gratificato, e le membra
dessero a sé stesse la promessa di partecipare all’onore che era rifulso nel capo.
A questo proposito il Signore stesso, parlando della maestà della sua venuta,
aveva detto: "Allora i giusti risplenderanno come sole nel regno del Padre loro"
(Mt 13,43); e il beato apostolo Paolo afferma la stessa cosa, in questi termini:
"Ritengo infatti che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili
alla gloria futura, che dovrà essere rivelata in noi" (Rm 8,18); e ancora: "Voi
infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio. Quando si
manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui
nella gloria" (Col 3,3-4).
Leone Magno, Sermo 51, 1-3
2. La rivelazione del Tabor
Oggi sul monte Tabor Cristo ha ridato alle sue sembianze umane la beltà
celeste. Perciò è cosa buona e giusta che io dica: "Quanto è terribile questo
luogo! È davvero la casa di Dio, è la porta dei cieli" (Gen 28,17).... Oggi,
infatti, il Signore è veramente apparso sul monte. Oggi, la natura umana, già
creata a somiglianza di Dio, ma oscurata dalle deformi figure degli idoli, è stata
trasfigurata nell’antica bellezza fatta a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen
1,26). Oggi, sul monte, la natura, fuorviata dall’idolatria, è stata trasformata,
rimanendo tuttavia la stessa, e ha cominciato a risplendere nel fulgore della
divinità. Oggi, sul monte colui che un tempo fu vestito di squallidi e tristi abiti
di pelli, di cui parla il libro della Genesi (cf. Gen 3,21), ha indossato la veste
divina avvolgendosi di luce come di un manto (cf. Sal 103,2). Oggi, sul monte
Tabor, in modo del tutto misterioso, si è visto come sarà la vita futura nel regno
del gaudio. Oggi, in modo mirabile si sono adunati sul monte, attorno a Dio, gli
antichi precursori della Vecchia e della Nuova Alleanza, recando un mistero
pieno di straordinari prodigi. Oggi, sul monte Tabor, si delinea il legno della
Croce che con la morte dà la vita: come Cristo fu crocifisso tra due uomini sul
monte Calvario, così è apparso pieno di maestà tra Mosè ed Elia.
E la festa odierna ci mostra ancora l’altro Sinai, monte quanto più prezioso
del Sinai, grazie ai prodigi e agli eventi che vi si svolsero: lì l’apparizione della
Divinità oltrepassa le visioni che per quanto divine erano ancora espresse in
immagini ed oscure. E così, come sul Sinai le immagini furono abbozzate
mostrando il futuro, così sul Tabor splende ormai la verità. Lì regna l’oscurità,
qui il sole; lì le tenebre, qui una nube luminosa. Da una parte il Decalogo,
dall’altra il Verbo, eterno su ogni altra parola... La montagna del Sinai non aprì
a Mosè la Terra Promessa, ma il Tabor l’ha condotto nella terra che costituisce
la Promessa.
Anastasio Sinaita, Hom. de Transfigurat.
3. La Trasfigurazione (Mt 17,1-8)
Tu che hai manifestato la tua Divinità
Ai discepoli tuoi sulla montagna,
E del Padre hai mostrato l’ineffabil gloria
Sfolgorante ai loro occhi,
Purifica così il mio oscuro spirito
E i sensi miei sì tenebrosi,
Perché chiaramente al luogo della Parusia
Saziarmi lo possa di tua divina Gloria!
Nerses Snorhali, Jesus, 492-493
III DOMENICA DI QUARESIMA
1. La Samaritana
Nostro Signore venne alla fontana come un cacciatore, chiese l’acqua per
poterne dare; chiese da bere come uno che ha sete, per avere l’occasione di
estinguere la sete. Fece una domanda alla Samaritana per poterle insegnare e, a
sua volta, essa gli pose una domanda. Benché ricco, Nostro Signore non ebbe
vergogna di mendicare come un indigente, per insegnare all’indigente a
chiedere. E dominando il pudore, non temeva di parlare ad una donna sola, per
insegnarmi che colui che si tiene nella verità non può essere turbato. "Essi si
meravigliarono che si intrattenesse con una donna e le parlasse" (Gv 4,27). Egli
aveva allontanato i discepoli (cf. Gv 4,8), perché non gli scacciassero la preda;
egli gettò un’esca alla colomba, sperando così di prendere tutto uno stormo.
Aprì la conversazione con una domanda, con lo scopo di provocare confessioni
sincere: "Dammi dell’acqua, perché io beva" (Gv 4,7). Chiese dell’acqua, poi
promise l’acqua della vita; chiese, poi smise di chiedere, al pari della donna che
abbandonò la sua brocca. I pretesti erano finiti, perché la verità che essi
dovevano preparare, era ora presente.
"Dammi dell’acqua, perché io beva. Essa gli disse: Ma tu sei Giudeo. Egli
le disse: Se tu sapessi" (Gv 4,7.9-10); con queste parole, egli le dimostrò che
essa non sapeva e che la sua ignoranza spiegava il suo errore; la istruì sulla
verità; voleva rimuovere a poco a poco il velo che era sul suo cuore. Se le
avesse rivelato fin dall’inizio: Io sono il Cristo, essa avrebbe avuto orrore di lui
e non si sarebbe messa alla sua scuola: "Se tu sapessi chi è colui che ti ha detto:
Dammi dell’acqua perché io beva, tu gli avresti chiesto... La donna gli disse: Tu
non hai un secchio per attingere e il pozzo è profondo. Egli le rispose" (Gv
4,10-11; 4,13): Le mie acque discendono dal cielo. Questa dottrina viene
dall’alto e la mia bevanda è celeste; coloro che ne bevono non hanno più sete,
poiché non vi è che un battesimo per i credenti: "Chiunque beve dell’acqua che
io gli darò, non avrà più sete. Essa gli disse: Dammi di quest’acqua perché io
non abbia più sete e non debba venir più qui ad attingerne" (Gv 4,14-15).
"Egli le disse: Va’ a chiamare tuo marito" (Gv 4,16). Come un profeta, egli
le apre una porta per rivelarle cose nascoste. Ma essa gli rispose: "Io non ho
marito" (Gv 4,17), per provare se egli conosceva le cose nascoste. Egli le
dimostrò allora due cose; ciò che essa era e ciò che essa non era, ciò che era di
nome, ma non era in verità: "Tu ne hai avuti cinque, e quello attuale non è tuo
marito. Essa gli disse: Mio Signore, vedo che sei un profeta" (Gv 4,18-19). Qui,
egli la portò ad un gradino superiore: "I nostri padri hanno adorato su questo
monte. Egli le rispose: Non sarà più così, né su questo monte, né a
Gerusalemme; ma i veri adoratori adoreranno in spirito e verità" (Gv 4,20-
21.23). La esercitava perciò nella perfezione, e la istruì nella vocazione dei
gentili. E per manifestare che non era una terra sterile, essa testimoniò, tramite
il covone che gli offrì, che il suo seme aveva fruttificato al centuplo: "Ecco,
quando verrà il Messia, ci annunzierà ogni cosa. Egli le rispose: Sono io che ti
parlo" (Gv 4,25-26). Ma se tu sei re, perché mi chiedi dell ‘acqua ? È
progressivamente che si rivelò a lei, prima come Giudeo, poi come profeta,
quindi come il Cristo. La condusse di gradino in gradino fino al livello più alto.
Essa vide in lui dapprima qualcuno che aveva sete, poi un Giudeo, quindi un
profeta, e infine Dio. Essa persuase colui che aveva sete, ebbe il Giudeo in
avversione, interrogò il saggio, fu corretta dal profeta e adorò il Cristo.
Efrem, Diatessaron, 12, 16-18
2. La stanchezza di Gesù
"Gesù pertanto, stanco del viaggio, se ne stava così sedendo presso il
pozzo. Era circa l’ora sesta" (Gv 4,6). Cominciano i misteri. Non è certo senza
un motivo che Gesù era stanco, non senza un motivo appare affaticata la forza
di Dio. Cristo, che ridà forza a è prostrato dalla fatica, Cristo la cui presenza ci
fortifica, e la cui assenza ci debilita, non a caso appare qui stanco. Comunque,
Gesù è stanco, stanco del viaggio, e si siede presso il pozzo; si siede, stanco,
all’ora sesta. Tutti questi elementi insinuano qualcosa, ci vogliono indicare
qualcosa; ci fanno attenti, ci invitano a bussare. Ci apra, a noi e a voi, quello
stesso che si è degnato di esortarci dicendo: "Bussate, e vi sarà aperto" (Mt 7,7).
È per te, che Gesù si è stancato nel viaggio. Vediamo Gesù pieno di forza,
e lo vediamo debole; forte e debole: forte, perché «in principio era il Verbo e il
Verbo era presso Dio e era Dio il Verbo. Era questi in principio presso Dio».
Vuoi vedere quanto è forte il Figlio di Dio? "Le cose tutte furono fatte per
mezzo di lui, e senza di lui nulla fu fatto" (Gv 1,3); e tutto senza fatica. Chi,
dunque, è più forte di lui, che ha fatto tutte le cose senza fatica? Vuoi ora
vederlo debole? "Il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi" (Gv 1,14).
La forza di Cristo ti ha creato, la debolezza di Cristo ti ha rigenerato. La
forza di Cristo fece che ciò che prima non era fosse; la debolezza di Cristo fece
che ciò che era non perisse. Con la sua forza ci ha creati, con la sua debolezza
ci ha cercati.
È dunque con la sua debolezza che egli nutre i deboli...
Poiché dunque si è degnato di venire a noi apparendo in forma di servo per
la carne assunta, questa stessa carne assunta è il suo viaggio. Perciò «stanco del
viaggio», che altro vuol dire se non affaticato nella carne?
Gesù è debole nella carne, ma non volerlo essere tu nella debolezza di lui
tu devi essere forte, perché il debole di Dio è più forte di tutta la potenza umana
(cf. 1Cor 1,25).
Agostino, In Ioan. 15, 6-7
3. È salutare leggere le sacre Scritture
Dice l’Apostolo: "Molte volte e in molti modi anticamente Dio parlò ai
nostri padri per mezzo dei profeti; ma in questi ultimi giorni ha parlato a noi per
mezzo del Figlio" (Eb 1,1s). Per mezzo dello Spirito Santo, dunque, hanno
parlato la Legge, i profeti, gli evangelisti, gli apostoli, i pastori e i maestri.
Perciò ogni Scrittura è ispirata da Dio ed è anche certamente utile (cf. 2Tm
3,16). E bello dunque e salutare indagare le divine Scritture. "Come un albero
piantato lungo corsi d’acqua", così anche l’anima, irrigata dalla Scrittura divina,
cresce "e porta frutto alla sua stagione" (Sal 1,3), cioè la fede retta, ed è sempre
adorna di foglie verdeggianti, cioè le opere gradite a Dio. Dalle Scritture sante
infatti veniamo condotti alle azioni virtuose e alla contemplazione pura.
Troviamo in esse lo stimolo ad ogni virtù e la dissuasione da ogni vizio. Se
dunque impareremo con amore, impareremo molto: infatti, con la diligenza, la
fatica e la grazia di Dio che dà tutto, tutto si ottiene, poiché "chi chiede riceve,
chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto" (Lc 11,10).
Battiamo dunque a questo magnifico giardino delle Scritture, olezzante,
soave, fiorente, che rallegra le nostre orecchie con il canto molteplice di uccelli
spirituali, pieni di Dio, che tocca il nostro cuore, consolandolo se è triste,
calmandolo se è irritato, riempiendolo di eterna letizia; che innalza il nostro
pensiero sul dorso dorato, rutilante, nella divina colomba (cf. Sal 67,14), che
con le sue ali raggianti ci porti al Figlio unigenito ed erede del padrone della
vigna spirituale e per mezzo di lui al "Padre dei lumi" (Gc 1,17). Ma non
battiamo fiaccamente bensì con ardore e costanza; e non stanchiamoci di
battere. In questo modo ci sarà aperto. Se leggiamo una volta e due volte e non
comprendiamo quello che leggiamo, non scoraggiamoci, ma persistiamo,
riflettiamo, interroghiamo. È detto infatti: "Interroga tuo padre e te lo
annuncerà, i tuoi vecchi e te lo diranno" (Dt 32,7). La scienza non è di tutti (cf.
1Cor 8,7). Attingiamo alla sorgente di questo giardino le acque perenni e
purissime che zampillano nella vita eterna (cf. Gv 4,14). Ne godremo e ce ne
delizieremo senza saziarcene: possiede una grazia inesauribile.
Giovanni Damasceno, Expos. fidei orthod. 4, 17
4. La Samaritana, immagine della Chiesa
Cosa insegna dunque la Bibbia? Cristo, essa ci dice, dal quale sgorga una
sorgente di vita per gli uomini, affaticato dal viaggio, stava seduto (cf. Gv 4,5-
6) presso una fonte di Samaria, ed era l’ora del caldo: era infatti circa l’ora
sesta, dice la Scrittura, nel mezzo del giorno, quando il Messia venne ad
illuminare coloro che erano nella notte. La sorgente raggiunse la sorgente per
lavare, non per bere; la fontana d’immortalità è là accanto al ruscello della
miserabile, come spogliata; egli è stanco di camminare, lui che, senza fatica, ha
percorso il mare a piedi, lui che accorda gioia e redenzione.
Ora, proprio mentre il Misericordioso stava vicino al pozzo, come ho
detto, ecco che una Samaritana prese la sua brocca sulle spalle e venne, uscendo
da Sichar, sua città (cf. Gv 4,7). E chi non dirà felice la partenza e il ritorno di
quella donna? Ella uscì nel sudiciume, e ritornò immagine della Chiesa, senza
macchia. Uscì e attinse la vita come una spugna; uscì portando la brocca,
rientrò portando Dio. E chi non dirà beata quella donna? O meglio, chi non
venererà colei che è venuta dalle nazioni? Infatti, ella è immagine, e riceve
gioia e redenzione.
Romano il Melode, Hymn. 19, 4-5
5. La Samaritana (Gv 4,1-42)
Sorgente della vita, Tu hai chiesto l’acqua
Alla Samaritana nella (tua) sete;
E Tu hai promesso l’Acqua viva,
in cambio dell’effimera.
A me pure accorda, Sorgente della Vita,
La santa Bevanda spirituale,
Colui che sgorga dal seno come un fiume:
Lo Spirito da cui zampilla la grazia in abbondanza.
Nerses Snorhali, Jesus, 442-443
IV DOMENICA DI QUARESIMA
1. Il cieco nato
E perché essi avevano bestemmiato a proposito delle sue parole: "Prima
che Abramo fosse, io ero" (Gv 8,58), Gesù andò verso l’incontro con un uomo,
cieco fin dalla nascita: "E i suoi discepoli lo interrogarono: Chi ha peccato, lui o
i suoi genitori? Egli disse loro: Né lui, né i suoi genitori, ma è perché Dio sia
glorificato. È necessario che io compia le opere di colui che mi ha mandato,
finché è giorno" (Gv 9,2-4), fintanto che sono con voi. "Sopraggiunge la notte"
(Gv 9,4), e il Figlio sarà esaltato, e voi che siete la luce del mondo,
scomparirete e non vi saranno più miracoli a causa dell’incredulità. "Ciò
dicendo, sputò per terra, formò del fango con la saliva, e fece degli occhi con il
suo fango" (Gv 9,6), e la luce scaturí dalla terra, come al principio, quando
l’ombra del cielo, "la tenebra, era estesa su tutto" ed egli comandò alla luce e
quella nacque dalle tenebre (cf. Gen 1,2-3). Così «egli formò del fango con la
saliva», e guarì il difetto che esisteva dalla nascita, per mostrare che lui, la cui
mano completava ciò che mancava alla natura, era proprio colui la cui mano
aveva modellato la creazione al principio. E siccome rifiutavano di crederlo
anteriore ad Abramo, egli provò loro con quest’opera che era il Figlio di colui
che, con la sua mano, "formò" il primo "Adamo con la terra" (Gen 2,7): in
effetti, egli guarì la tara del cieco con i gesti del proprio corpo.
Fece ciò inoltre per confondere coloro che dicono che l’uomo è fatto di
quattro elementi, poiché rifece le membra carenti con terra e saliva, fece ciò a
utilità di coloro che cercavano i miracoli per credere: "I Giudei cercano i
miracoli" (1Cor 1,22). Non fu la piscina di Siloe che aprì gli occhi del cieco (cf.
Gv 9,7.11), come non furono le acque del Giordano che purificarono Naaman; è
il comando del Signore che compie tutto. Ben più, non è l’acqua del nostro
Battesimo, ma i nomi che si pronunciano su di essa, che ci purificano. "Unse i
suoi occhi con il fango" (Gv 9,6), perché i Giudei ripulissero l’accecamento del
loro cuore. Quando il cieco se ne andò tra la folla e chiese: «Dov’è Siloe?», si
vide il fango cosparso sui suoi occhi. Le persone lo interrogarono, egli le
informò, ed esse lo seguirono, per vedere se i suoi occhi si fossero aperti.
Coloro che vedevano la luce materiale erano guidati da un cieco che
vedeva la luce dello spirito, e, nella sua notte, il cieco era guidato da coloro che
vedevano esteriormente, ma che erano spiritualmente ciechi. Il cieco lavò il
fango dai suoi occhi, e vide se stesso; gli altri lavarono la cecità del loro cuore
ed esaminarono sé stessi. Nostro Signore apriva segretamente gli occhi di molti
altri ciechi. Quel cieco fu una bella e inattesa fortuna per Nostro Signore; per
suo tramite, acquistò numerosi ciechi, che egli guarì dalla cecità del cuore.
In quelle poche parole del Signore si celavano mirabili tesori, e, in quella
guarigione era delineato un simbolo: Gesù figlio del Creatore. "Va’, lavati il
viso" (Gv 9,7), per evitare che qualcuno consideri quella guarigione più come
un stratagemma che come un miracolo, egli lo mandò a lavarsi. Disse ciò per
mostrare che il cieco non dubitava del potere di guarigione del Signore, e
perché, camminando e parlando, pubblicizzasse l’evento e mostrasse la sua
fede.
La saliva del Signore servì da chiave agli occhi chiusi, e guarì l’occhio e la
pupilla con le acque, con le acque formò il fango e riparò il difetto. Agì così,
affinché, allorché gli avrebbero sputato in faccia, gli occhi dei ciechi, aperti
dalla sua saliva, avessero reso testimonianza contro di essi. Ma essi non
compresero il rimprovero che egli volle fare a proposito degli occhi guariti dei
ciechi: "Perché coloro che vedono diventino ciechi" (Mt 26,27); diceva questo
dei ciechi perché lo vedano corporalmente, e di quelli che vedono perché i loro
cuori non lo conoscano. Egli ha formato il fango durante il sabato (cf. Gv 9,14).
Omisero il fatto della guarigione e gli rimproverarono di aver formato del
fango. Lo stesso dissero a colui "che era malato da trentotto anni: Chi ti ha detto
di portare il tuo lettuccio?" (Gv 5,5.12), e non: Chi ti ha guarito? Qui,
analogamente: «Ha fatto del fango durante il sabato». E così, anzi per molto
meno, non si ingelosirono di lui e non lo rinnegarono, quando guarì un
idropico, con una sola parola, in giorno di sabato? (cf. Lc 14,1-6). Cosa gli fece
dunque guarendolo? Egli fu purificato e guarito con la sola parola. Quindi,
secondo le loro teorie, chiunque parla viola il sabato; ma allora - si dirà - chi ha
maggiormente violato il sabato, il nostro Salvatore che guarisce, o coloro che
ne parlano con gelosia?
Efrem, Diatessaron, 16, 28-32
2. Sermone per la terza domenica di Quaresima
Rendete grazie, fratelli, alla misericordia di Dio che vi ha conservati in
buona salute fino alla metà di questa Quaresima. Possono tuttavia lodare Dio
per tale dono, con più dolcezza e devozione, coloro che si sono applicati a
vivere come è stato detto all’inizio della Quaresima, cioè coloro che si son presi
l’impegno di digiunare ogni giorno in vista della remissione dei loro peccati, di
elargire elemosine, di portarsi in chiesa con sollecitudine e di pregare nelle
lacrime e i sospiri.
Quanto a coloro che hanno trascurato queste cose, cioè quelli che non
hanno digiunato ogni giorno, che non hanno elargito elemosine o non hanno
pregato con ardore e devozione, non v’e ragione per essi di rallegrarsi, hanno
piuttosto, sventurati, di che affliggersi. Non si affliggano tuttavia al punto di
disperare, poiché colui che ha potuto dare la vista al cieco nato (cf. Gv 9,1-38),
può anche rendere zelanti e ardenti nel suo servizio coloro che attualmente sono
tiepidi e negligenti, se vogliono convertirsi a Dio con tutto il cuore. Che tutti
quelli che si trovano in questo stato, cioè quelli che vivono nell’impurità, quelli
che covano odio contro qualcuno nel loro cuore, che si appropriano
ingiustamente del bene altrui o trattengono il proprio in maniera abusiva,
riconoscano dunque la loro cecità, e ricorrano al medico onde recuperare la
vista.
Possiate voi, allorché cadete nel peccato, cercare il rimedio spirituale negli
stessi modi con cui cercate quello carnale quando il vostro corpo è malato. Chi
c’è in questo momento, in mezzo a tutta questa folla, che se dovesse non dico
essere ucciso, ma solamente perdere gli occhi, non darebbe tutto ciò che
possiede per potervi sfuggire? Ma se temete a questo modo la morte della carne,
perché non dovreste temere quella dell’anima, soprattutto perché, mentre la
morte della carne, cioè il dolore, è di un istante, la morte dell’anima, cioè il
pianto e il castigo, non avrà mai fine? E se tenete tanto agli occhi del corpo che
perderete ben presto con la morte, perché non amare gli occhi spirituali con i
quali potrete vedere senza fine il vostro Dio e Signore?
Lavorate dunque, figli carissimi nel Signore, lavorate finché dura il giorno,
poiché "sopraggiunge la notte nella quale nessuno può più lavorare" (Gv 9,4). Il
giorno, è la vita presente; la notte, è la morte e il tempo dopo la morte. Se non
vi è possibilità di lavorare dopo questa vita, come lo afferma la Verità, perché
ciascuno non lavora finché ne ha il tempo, cioè finché vive in questo secolo?
Temete, fratelli, questa notte della quale il Salvatore dice: "Sopraggiunge la
notte nella quale nessuno può più lavorare". Coloro che compiono il male non
temono questa notte, e per questo motivo, all’uscita da questa vita, essi trovano
la notte, cioè la morte eterna. Lavorate finché vivete, ma in questi giorni
soprattutto, privandovi di piatti delicati, e astenendovi dai vizi in ogni tempo.
Infatti coloro che si privano del cibo e non si astengono dal male sono simili al
diavolo che non mangia e tuttavia non si allontana dal male. Sappiate infine che
voi dovete far passare in cielo, dandolo ai poveri, quello di cui vi private con il
digiuno.
Mettete in pratica, fratelli, gli avvertimenti di questo sermone odierno,
perché non cada su di voi la maledizione dei Giudei. «Essi dissero», in effetti,
al cieco: "Sii tu discepolo li quell’uomo" (Gv 9,28). Che significa essere
discepoli di Cristo se non essere discepoli della pietà, della verità e dell’umiltà?
È per attirare su di lui la divina maledizione che gli dissero questo, ma grande è
al contrario la sua benedizione: che egli vi conceda di riceverla, lui che vive e
regna nei secoli dei secoli. Amen.
Anonimo IX sec., Hom. 9, 1-5
3. Preghiera
O Gesù, redentore del genere umano, restauratore eterno della luce:
concedi a noi tuoi servi che, come siamo stati lavati dal peccato originale per
l’immersione del Battesimo - e in ciò consiste il significato di quella piscina che
restituì la vista agli occhi dei ciechi -, così pure siamo da te purificati dalle
nostre colpe mediante il secondo battesimo delle lacrime; e possiamo meritare
di essere divulgatori delle tue lodi, come quel cieco divenne nunzio della grazia.
E come quello fu riempito di fede per confessare te vero Dio, così noi pure
possiamo essere corroborati dalla testimonianza delle buone opere. Possa tu
subito venire incontro pietoso, per la tua smisurata pietà, a noi che
t’invochiamo, affinché, per questo sacrificio che ti offriamo, se vivi otteniamo
la medicina che salva, se defunti meritiamo di conseguire l’eterno gaudio senza
fine. Amen.
Sacramentario Mozarabico, 392 Post Nomina
V DOMENICA DI QUARESIMA
1. La risurrezione di Lazzaro
Il Signore e Salvatore nostro Cristo Gesù ha certo manifestato la potenza
della sua divinità con numerosi segni e con miracoli di ogni specie, ma
particolarmente alla morte di Lazzaro, come avete appena udito, carissimi, nella
presente lettura, mostrando di essere colui del quale era stato scritto: "Il Signore
della potenza è con noi, nostra rocca è il Dio di Giacobbe" (Sal 45,8). Questi
miracoli, il Signore e Salvatore nostro li ha operati sotto due aspetti: materiale e
spirituale, cioè producendo un effetto visibile e un altro invisibile, manifestando
per mezzo dell’effetto visibile la sua invisibile potenza. Prima, con un’opera
visibile, rese al cieco nato la vista della luce (cf. Gv 9,1-38) per illuminare con
la luce della sua conoscenza, per mezzo della sua invisibile potenza, la cecità
dei Giudei. Nella presente lettura, egli rese la vita a Lazzaro che era morto (cf.
Gv 11,1-44), al fine di risuscitare dalla morte del peccato alla vita i cuori
increduli dei Giudei. Di fatto molti Giudei credettero a Cristo Signore a causa
di Lazzaro: riconobbero nella sua risurrezione una manifestazione della potenza
del Figlio di Dio, poiché comandare alla morte in forza della propria potenza
non rientra fra le capacità della condizione umana, ma è proprio della natura
divina. Leggiamo invero che anche gli apostoli hanno risuscitato dei morti, ma
essi hanno implorato il Signore perché li risuscitasse (cf. At 9,40; 20,9-12); essi
li hanno sì risuscitati, non però con le loro forze, o per virtù propria, ma dopo
aver invocato il nome di Cristo che comanda alla morte e alla vita: il Figlio di
Dio invece ha risuscitato Lazzaro per virtù propria. Infatti appena il Signore
disse: "Lazzaro, vieni fuori" (Gv 11,43), quegli uscì subito dal sepolcro: ;la
morte non poteva trattenere colui che veniva chiamato dalla Vita. Il fetore della
tomba era ancora nelle narici dei presenti allorché Lazzaro era già in piedi e
vivo. La morte non attese di sentirsi ripetere il comando dalla voce del
Salvatore, perché essa non era in grado di resistere alla potenza della Vita; e
pertanto a una sola parola del Signore la morte fece uscire dal sepolcro il corpo
di Lazzaro e la sua anima dagli inferi, così tutto Lazzaro uscì vivo dal sepolcro,
dove non era completo ma solo col suo corpo. Ci si risveglia più lentamente dal
sonno che non Lazzaro dalla morte. Il fetore del cadavere era ancora nelle narici
dei Giudei che già Lazzaro stava in piedi e vivo. Ma consideriamo ora l’inizio
della stessa lettura.
Il Signore disse dunque ai suoi discepoli, come avete udito carissimi, nella
presente lettura: "Lazzaro, l’amico nostro, dorme ma io vado a risvegliarlo" (Gv
11,11). Il Signore disse bene. "Lazzaro, l’amico nostro, dorme," perché in realtà
egli stava per risuscitarlo da morte come da un sonno. Ma i discepoli, ignorando
il significato delle parole del Signore, gli dicono: "Signore, se dorme, guarirà"
(Gv 11,12). Allora in risposta "disse loro chiaro: Lazzaro è morto, ma sono
contento per voi di non essere stato là affinché crediate" (Gv 11,14-15). Se il
Signore qui afferma di rallegrarsi per la morte di Lazzaro in vista dei suoi
discepoli, come si spiega che in seguito pianse sulla morte di Lazzaro? (cf. Gv
11,35). Occorre, al riguardo, badare al motivo della sua contentezza e delle sue
lacrime. Il Signore si rallegrava per i discepoli, piangeva per i Giudei. Si
rallegrava per i discepoli, perché con la risurrezione di Lazzaro egli sapeva di
confermare la loro fede nel Cristo; ma piangeva per l’incredulità dei Giudei,
perché neppure di fronte a Lazzaro risorto avrebbero creduto a Cristo Signore.
O forse il Signore pianse per cancellare con le sue lacrime i peccati del mondo.
Se le lacrime versate da Pietro poterono lavare i suoi peccati, perché non
credere che i peccati del mondo siano stati cancellati dalle lacrime del Signore?
In effetti, dopo il pianto del Signore, molti fra il popolo dei Giudei credettero.
La tenerezza della bontà del Signore vinse in parte l’incredulità dei Giudei e le
lacrime da lui teneramente versate addolcirono i loro cuori ostili. E forse per
questo la presente lettura ci riferisce l’uno e l’altro sentimento del Signore, cioè
la sua gioia e il suo pianto, perché "chi semina nelle lacrime", com’è scritto,
"mieterà nella gioia" (Sal 125,5). Le lacrime del Signore sono dunque la gioia
del mondo: infatti per questo egli versò lacrime, perché noi meritassimo la
gioia. Ma ritorniamo al tema. Disse dunque ai suoi discepoli: "Lazzaro, l’amico
nostro, è morto; ma io sono contento per voi di non essere stato là, affinché
crediate". Rileviamo anche qui un mistero: come il Signore può dire di non
essere stato là [dove Lazzaro era morto]? Infatti quando dice chiaramente:
"Lazzaro è morto" dimostra all’evidenza di essere stato lì presente. Né il
Signore avrebbe potuto parlare così, dal momento che nessuno l’aveva
informato, se non fosse stato lì presente. Come il Signore poteva non essere
presente nel luogo dove Lazzaro era morto, lui che abbraccia con la sua divina
maestà ogni regione del mondo? Ma anche qui il Signore e Salvatore nostro
manifesta il mistero della sua umanità e della sua divinità. Egli non si trovava lì
con la sua umanità, ma era lì con la sua divinità, perché Dio è in ogni luogo.
Quando il Signore giunse da Maria e da Marta, sorelle di Lazzaro, alla
vista della folla dei Giudei, chiese: "Dove l’avete messo?" (Gv 11,34). Forse
che il Signore poteva ignorare dove era stato posto Lazzaro, lui che, sebbene
assente, aveva preannunciato la morte di Lazzaro e che con la maestà del suo
essere divino è presente dappertutto? Ma il Signore, così facendo, si attenne a
un’antica sua consuetudine. Infatti, allo stesso modo chiese ad Adamo:
"Adamo, dove sei?" (Gen 3,9). Egli interrogò Adamo non perché ignorava dove
si trovasse, ma perché Adamo confessasse il suo peccato con le proprie labbra e
potesse così meritarne il perdono. Interrogò anche Caino: "Dov’è tuo fratello
Abele"? ed egli rispose: "Non so" (Gen 4,9). Dio non interrogò Caino quasi che
non sapesse dove si trovava Abele, ma per potergli imputare, sulla base della
sua risposta negativa il delitto commesso contro il fratello. Di fatto Adamo ebbe
il perdono perché confessò il peccato commesso al Signore che lo interrogava;
Caino invece fu condannato alla pena eterna, perché negò il suo delitto. Così
anche nel nostro caso, quando il Signore chiede: "Dove l’avete messo?" non
pone la domanda quasi che ignori dove sia stato sepolto Lazzaro, ma perché la
folla dei Giudei lo segua fino al suo sepolcro e, constatando nella risurrezione
di Lazzaro la divina potenza di Cristo, essi divengano testimoni contro sé stessi
qualora non credano a un miracolo così grande. Infatti il Signore aveva loro
detto in precedenza: "Se non credete a me, credete almeno alle mie opere e
sappiate che il Padre è in me e io sono in lui" (Gv 10,38). Quando poi giunse
presso il sepolcro, disse ai Giudei che stavano intorno: "Levate via la pietra"
(Gv 11,39). Che dobbiamo dire? Forse che il Signore non poteva rimuovere la
pietra dal sepolcro con un semplice comando, lui che, con la sua potenza, ha
rimosso le sbarre degli inferi? Ma il Signore ha ordinato agli uomini di fare ciò
che era nelle loro possibilità; ciò che invece appartiene alla virtù divina, lo ha
manifestato con la propria potenza. Infatti rimuovere la pietra dal sepolcro è
possibile alle forze umane, ma richiamare un’anima dagli inferi è solo in potere
di Dio. Ma, se l’avesse voluto, avrebbe potuto rimuovere facilmente la pietra
dal sepolcro con una sola parola chi con la sua parola creò il mondo.
Quand’ebbero dunque rimosso la pietra dal sepolcro, il Signore disse a
gran voce: "Lazzaro, vieni fuori", dimostrando così di essere colui del quale era
stato scritto: "La voce del Signore è potente, la voce del Signore è maestosa"
(Sal 28,4), e ancora: "Ecco che darà una voce forte alla sua potenza" (Sal
67,34). Questa voce che ha subito richiamato Lazzaro dalla morte alla vita è
veramente una voce potente e maestosa, e l’anima fu restituita al corpo di
Lazzaro prima che il Signore avesse fatto uscire il suono della sua voce.
Sebbene il corpo fosse in un luogo e l’anima in un altro, tuttavia questa voce
del Signore restituì subito l’anima al corpo e il corpo obbedì all’anima. La
morte infatti fu rimossa alla voce di una così grande potenza. E nulla di strano,
certamente, che Lazzaro sia potuto risorgere per una sola parola del Signore,
quando ha dichiarato egli stesso nel Vangelo che quanti sono nei sepolcri
risorgeranno alla sola e unica parola, dicendo: "Viene l’ora in cui i morti
ascolteranno la voce del Figlio di Dio e risorgeranno" (Gv 5,25). Senza dubbio,
all’udire la parola del Signore, la morte avrebbe potuto allora lasciar liberi tutti i
morti, se non avesse capito che era stato chiamato soltanto Lazzaro. Dunque,
quando il Signore disse: "Lazzaro, vieni fuori, subito egli uscì legato piedi e
mani e la faccia ravvolta in un sudario" (Gv 11,44). Che diremo qui ancora?
Forse che il Signore non poteva spezzare le bende nelle quali Lazzaro era stato
sepolto, lui che aveva spezzato i legami della morte? Ma qui il Signore e
Salvatore nostro manifesta nella risurrezione di Lazzaro la duplice potenza della
sua operazione per tentare d’infondere almeno così la fede nei Giudei increduli.
Infatti non desta minor meraviglia veder Lazzaro poter camminare a piedi legati
che vederlo risuscitare dai morti...
Cromazio di Aquileia, Sermo 27, 1-4
2. Le lacrime del Signore
Egli andò per trarre fuori il morto dal sepolcro e interrogò: "Dove lo avete
deposto? E comparvero le lacrime sugli occhi di Nostro Signore" (Gv 11,34-
35), le sue lacrime furono come la pioggia, e Lazzaro come il grano, e il
sepolcro come la terra. Egli gridò con voce di tuono e la morte tremò alla sua
voce; Lazzaro si erse come il grano, uscì fuori e adorò il Signore che lo aveva
risuscitato.
Efrem, Diatessaron, 17, 7
3. La risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-45)
Come Lazzaro, (tuo) amico,
Io morto fui messo nella tomba;
Ed è non da quattro giorni ma da lunghi anni
Che l’anima mia morta giace nel mio corpo.
Fa’ risuonare in me la voce tua celeste
E fammi intendere la (tua) Parola;
Scioglimi dai vincoli infernali,
Ritraimi dalla mia casa tenebrosa.
Nerses Snorhali, Jesus, 666-667
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