IL PRIMATO DI PIETRO

 
IL PRIMATO DI PIETRO
Dopo Gesù, Pietro è il personaggio più noto e citato negli scritti neotestamentari: viene menzionato 154 volte con il soprannome di Pétros, "pietra", "roccia", che è traduzione greca del nome aramaico datogli direttamente da Gesù, Kefa, attestato 9 volte soprattutto nelle lettere di Paolo. Si deve poi aggiungere il frequente nome Simòn (75 volte), che è forma grecizzata del suo originale nome ebraico Simeòn (2 volte: Atti 15,14; 2 Pietro 1,1).
Recenti scavi archeologici hanno consentito di portare alla luce, sotto il pavimento a mosaico ottagonale di una piccola Chiesa bizantina, le tracce di una chiesa più antica sistemata in quella casa, come attestano i graffiti con invocazioni a Pietro.


Un altro momento significativo nel suo cammino spirituale Pietro lo vivrà nei pressi di Cesarea di Filippo, quando Gesù pone ai discepoli una precisa domanda: "Chi dice la gente che io sia?" (Marco 8,27). A Gesù però non basta la risposta del sentito dire. Da chi ha accettato di coinvolgersi personalmente con Lui vuole una presa di posizione personale. Perciò incalza: "E voi chi dite che io sia?" (Mc 8,29). È Pietro a rispondere per conto anche degli altri: "Tu sei il Cristo", cioè il Messia. Questa risposta di Pietro, che non venne "dalla carne e dal sangue" di lui, ma gli fu donata dal Padre che sta nei cieli (Matteo 16,17), porta in sé come in germe la futura confessione di fede della Chiesa. Tuttavia Pietro non aveva ancora capito il profondo contenuto della missione messianica di Gesù, il nuovo senso di questa parola: Messia. Lo dimostra poco dopo, lasciando capire che il Messia che sta inseguendo nei suoi sogni è molto diverso dal vero progetto di Dio. Davanti all’annuncio della passione si scandalizza e protesta, suscitando la vivace reazione di Gesù (Marco 8, 32-33).
In un mattino di primavera questa missione gli sarà affidata da Gesù risorto. L’incontro avverrà sulle sponde del lago di Tiberiade. È l’evangelista Giovanni a riferirci il dialogo che in quella circostanza ha luogo tra Gesù e Pietro. Vi si rileva un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo "filéo" esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo "agapáo" significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato.
Gesù domanda a Pietro la prima volta: "Simone, mi ami tu (agapâs-me)" con questo amore totale e incondizionato (Giovanni 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’apostolo avrebbe certamente detto: "Ti amo (agapô-se) incondizionatamente". Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: "Signore, ti voglio bene (filô-se)", cioè "ti amo del mio povero amore umano". Il Cristo insiste: "Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?". E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: "Kyrie, filô-se", "Signore, ti voglio bene come so voler bene".


Isaia 26:4
Confidate nell'Eterno per sempre, perché l'Eterno, sì l'Eterno, è la roccia eterna.

1Pietro 2:7
Per voi dunque che credete essa è preziosa, ma per coloro che disubbidiscono: «La pietra, che gli edificatori hanno rigettato, è divenuta la testata d'angolo, pietra d'inciampo e roccia d'intoppo che li fa cadere».

Figlio di Giovanni (Giovanni 1,42) o, nella forma aramaica, bar-Jona, figlio di Giona (Matteo 16,17), Simone era di Betsaida (Giovanni 1,44), una cittadina a oriente del mare di Galilea, da cui veniva anche Filippo e naturalmente Andrea, fratello di Simone. La sua parlata tradiva l’accento galilaico. Era un ebreo credente e osservante, fiducioso nella presenza operante di Dio nella storia del suo popolo, e addolorato per non vederne l’azione potente nelle vicende di cui egli era, al presente, testimone. Era sposato e la suocera, guarita un giorno da Gesù, viveva nella città di Cafarnao, nella casa in cui anche Simone alloggiava quando era in quella città (Matteo 8,14; Marco 1,29; Luca 4,38).

I Vangeli ci informano che Pietro è tra i primi quattro discepoli del Nazareno (Luca 5,1-11), ai quali se ne aggiunge un quinto, secondo il costume di ogni Rabbi di avere cinque discepoli (Luca 5,27: chiamata di Levi). Quando Gesù passerà da cinque a dodici discepoli (Lc 9,1-6), sarà chiara la novità della sua missione: Egli non è uno dei tanti rabbini, ma è venuto a radunare l’Israele escatologico, simboleggiato dal numero dodici, quante erano le tribù d’Israele. Simone appare nei Vangeli con un carattere deciso e impulsivo; egli è disposto a far valere le proprie ragioni anche con la forza (si pensi all’uso della spada nell’Orto degli Ulivi: Giovanni 18,10). Al tempo stesso, è a volte anche ingenuo e pauroso, e tuttavia onesto, fino al pentimento più sincero (Matteo 26,75). I Vangeli consentono di seguirne passo passo l’itinerario spirituale.

Il punto di partenza è la chiamata da parte di Gesù. Avviene in un giorno qualsiasi, mentre Pietro è impegnato nel suo lavoro di pescatore. Gesù si trova presso il lago di Genesaret e la folla gli fa ressa intorno per ascoltarlo. Il numero degli ascoltatori crea un certo disagio. Il Maestro vede due barche ormeggiate alla sponda; i pescatori sono scesi e lavano le reti. Egli chiede allora di salire sulla barca, quella di Simone, e lo prega di scostarsi da terra. Sedutosi su quella cattedra improvvisata, si mette ad ammaestrare le folle dalla barca (Luca 5,1-3). E così la barca di Pietro diventa la cattedra di Gesù. Quando ha finito di parlare, dice a Simone: "Prendi il largo e calate le reti per la pesca". Simone risponde: "Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti" (Luca 5,4-5). Gesù, che era un falegname, non era un esperto di pesca: eppure Simone il pescatore si fida di questo Rabbi, che non gli dà risposte ma lo chiama ad affidarsi. La sua reazione davanti alla pesca miracolosa è quella dello stupore e della trepidazione: "Signore, allontanati da me che sono un peccatore" (Lc 5,8). Gesù risponde invitandolo alla fiducia e ad aprirsi ad un progetto che oltrepassa ogni sua prospettiva: "Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini" (Luca 5,10). Pietro non poteva ancora immaginare che un giorno sarebbe arrivato a Roma e sarebbe stato qui "pescatore di uomini" per il Signore. Egli accetta questa chiamata sorprendente, di lasciarsi coinvolgere in questa grande avventura: è generoso, si riconosce limitato, ma crede in colui che lo chiama e insegue il sogno del suo cuore. Dice di sì – un sì coraggioso e generoso – e diventa discepolo di Gesù.

Pietro, che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione.


Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: "Fileîs-me?", "mi vuoi bene?". Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: "Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô-se)". Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! È proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: "Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: ‘Seguimi’" (Giovanni 21,19).


Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta. È stato per Pietro un lungo cammino che lo ha reso un testimone affidabile, "pietra" della Chiesa, perché costantemente aperto all’azione dello Spirito di Gesù. Pietro stesso si qualificherà come "testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi" (1Pietro 5,1).


Quando scriverà queste parole sarà ormai anziano, avviato verso la conclusione della sua vita che sigillerà con il martirio. Sarà in grado, allora, di descrivere la gioia vera e di indicare dove essa può essere attinta: la sorgente è Cristo creduto e amato con la nostra debole ma sincera fede, nonostante la nostra fragilità. Perciò scriverà ai cristiani della sua comunità, e lo dice anche a noi: "Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime" (1Pietro 1,8-9).


"Non sono pochi, anche tra i cattolici, quelli che mettono in dubbio il Primato della Chiesa romana, basato sul mandato che Cristo stesso affidò a Simon Pietro: "E io ti dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa" (Mt 16,18). Eppure, esistono documenti extrabiblici che attestano e testimoniano come, sin dalla fine del primo secolo, nelle comunità cristiane fosse viva la consapevolezza di una Chiesa strutturata gerarchicamente, con al vertice il vescovo di Roma, ovvero il Papa. La prova sta in una lettera di Papa Clemente I, scritta sul finire del primo secolo, pervenutaci sia attraverso il Codice Biblico Alessandrino (V sec.), sia attraverso il Codice Greco 54 (XI sec.), custodito a Gerusalemme. Ecco i fatti. Nella comunità di Corinto alcuni fedeli avevano sollevato una sedizione contro i capi della Chiesa locale e l'eco di tali disordini, sfociati nella ingiusta rimozione di alcuni presbiteri, era arrivata sino alla Chiesa di Roma, che stava subendo la persecuzione di Domiziano.


La lettera di Clemente I si riferisce proprio a questa persecuzione, da poco terminata quando il Papa mette mano allo scritto, per giustificare il fatto di "aver troppo tardato a dirimere alcune questioni che sono in discussione tra voi". Come potrebbe dirimere alcunché - ci domandiamo chi non ha la necessaria autorità? E perché mai dovrebbe farlo il vescovo di Roma, se ha già i suoi bravi problemi dovuti alle continue persecuzioni? La Chiesa di Corinto, oltretutto, si trovava molto lontana da Roma, ma evidentemente il Papa avverte il suo intervento come un dovere. Dovere che, a nostro avviso, nasce dalla consapevolezza di sedere sulla cattedra di Pietro e di possedere, per ciò stesso, una indiscussa autorità sulla Chiesa universale.


Sta di fatto che il vescovo di Roma, sicuro di essere ascoltato, richiama all'ordine i ribelli e li ammonisce, ricordando loro la responsabilità che hanno di fronte a Cristo: "Ma se qualcuno non obbedisce a ciò che per nostro tramite Egli [Cristo] dice, sappiamo che si vedrà implicato in una colpa e in un pericolo non indifferente. Noi però saremo innocenti di questo peccato". Il richiamo all'obbedienza da parte del Papa è significativo al pari delle minacce spirituali riservate a chi disobbedisce. Siamo di fronte, indubbiamente, ad un gesto di correzione fraterna da parte di chi deve confermare i suoi fratelli nella fede, ma anche alla consapevolezza della propria responsabilità sulla Chiesa intera. Da Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica, IV, 23, 11) sappiamo che tale avvertimento pontificio venne accolto, ascoltato e messo in pratica, con ciò confermando 1'autorità normativa e disciplinare di chi aveva pronunciato tale monito. Che importanza ha per noi questo documento? Enorme. Se da un lato ci dimostra che sin dalle origini e persino in comunità fondate direttamente dagli apostoli (Corinto) esistevano dissidenti e teste calde, d'altro lato questa epistola riveste il valore di prova che alla Chiesa di Roma e al suo Vescovo veniva riconosciuto il Primato sia giuridico che di governo rispetto alle altre chiese." (cfr, Il Timone di Settembre ’99, Gianfranco Nicotra)
Ma esistono molte altre prove storiche che rispondo alla classica domanda:


PIETRO FU DAVVERO A ROMA?

    Una tradizione, assai antica, ha creduto che Pietro sia andato a Roma, dove avrebbe subito il martirio sotto la persecuzione di Nerone. Per secoli questa fu la fede della Chiesa. Solo nel XIV secolo, Marsilio da Padova avanzò dubbi sul fatto che Pietro fosse stato vescovo di Roma. In seguito, larga parte del protestantesimo tentò di mettere in dubbio anche la venuta di Pietro a Roma con evidenti finalità polemiche verso la chiesa cattolica ed il vescovo di Roma.
    Sebbene il Nuovo Testamento non parli chiaramente del martirio romano di Pietro, nel saluto finale della sua prima epistola Pietro dice: "La chiesa che è in Babilonia, eletta come voi, vi saluta" (1 Pietro 5, 13). Poiché l'antica Babilonia giaceva distrutta da molti secoli e in Mesopotamia  non esisteva una comunità cristiana ma solo di una colonia giudaica, Babilonia deve essere per forza il nome


simbolico di Roma, nome peraltro assai amato nell'apocalittica giudaica e cristiana (Apocalisse 17-18-19).  
    Clemente Romano (ca. 96 d.C.) per primo parla della morte di Pietro e di Paolo, dicendo: "Per l'invidia e gelosia  furono perseguitate le più grandi e più giuste colonne le quali combatterono sino alla morte. Poniamoci dinanzi agli occhi i buoni apostoli. Pietro che per l'ingiusta invidia soffrì non uno, ma numerosi tormenti nella grande Babilonia, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Fu per effetto di gelosia e discordia che Paolo mostrò come si consegua il premio della pazienza …." (Clemente, 1 Corinzi V, 2-5)


Ignazio, vescovo di Antiochia, verso il 110 d.C. durante il suo viaggio verso Roma per subirvi il martirio, pur non ricordando il martirio dell'apostolo, scrive alla chiesa ivi esistente di non voler impartire loro "degli ordini come Pietro e Paolo" poiché essi "erano liberi, mentre io sono schiavo" (Ignazio, Ai Romani 4, 3). Siccome Pietro non scrisse alcuna lettera ai Romani, si deve dedurre che egli avesse loro impartito dei comandi di presenza, cioè a voce, come solevano fare gli Apostoli.


    Papia di Gerapoli, verso il 130 d.C. afferma che Pietro scrisse da Roma la sua lettera (Papia in Eusebio, Storia Ecclesiastica II, 15, 2), usando il termine figurato di Babilonia per indicare Roma.
    Origene (185-254) è il primo a ricordarci che Pietro fu crocifisso a Roma con il capo all'ingiù. Egli infatti scrive: "Si pensa che Pietro predicasse ai Giudei della dispersione per tutto il Ponto, la Galazia, la Bitinia, la Cappadocia e l'Asia e che infine venisse a Roma dove fu affisso alla croce con il capo all'ingiù, così infatti aveva pregato di essere posto in croce". (Origene in Eusebio, Storia Ecclesiastica III, 1, 2).
    Dionigi, vescovo di Corinto, verso il 170 d.C., in una lettera parzialmente conservata da Eusebio, attribuisce a Pietro e Paolo la fondazione della chiesa di Corinto e la loro predicazione simultanea in Italia dove assieme subirono il martirio. "Con la vostra ammonizione voi (Romani) avete congiunto Roma e Corinto in due fondazioni che dobbiamo a Pietro e Paolo. Poiché ambedue, venuti nella nostra Corinto hanno piantato e istruito noi, allo stesso modo poi, andati in Italia, insieme vi insegnarono e resero testimonianza (con la loro morte) al medesimo tempo" (Dionigi in Eusebio, Storia Ecclesiastica II, 25).
    Clemente Alessandrino (150-215) ricorda che, "quando Pietro ebbe predicato pubblicamente la Parola a Roma e dichiarato il Vangelo nello Spirito, molti degli ascoltatori chiesero a Marco, che lo aveva seguito da lungo tempo e ricordava i suoi detti, di metterli per iscritto." (Eusebio, Storia Ecclesiastica VI, 14).
    Tertulliano (160-240) ripete che Pietro fu crocifisso a Roma durante la persecuzione neroniana, dopo aver ordinato Clemente, il futuro vescovo romano (Scorpiace XV; Sulla prescrizione degli eretici XXXII); lo stesso Tertulliano ricorda anche il martirio comune di Pietro e Paolo a Roma, sottolineando come Pietro avesse sofferto lo stesso martirio di Gesù e come Paolo fosse stato ucciso come Giovanni Battista (Sulla prescrizione degli eretici XXXVI).


    Ireneo, vescovo di Lione (140-202), ricorda che "Matteo... compone il suo Vangelo mentre Pietro e Paolo predicavano e fondavano la chiesa …" e parla "… della chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo …. con questa chiesa, in ragione della sua origine più eccellente, deve essere necessariamente d'accordo ogni chiesa, cioè i fedeli che vengono da ogni parte ….la chiesa nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la tradizione che viene dagli apostoli …" (Contro le eresie III, 1-3)


     Eusebio di Cesarea (260-337) ricorda come, sotto il regno di Claudio, la Provvidenza condusse Pietro a Roma per porre fine al potere di Simon Mago (Eusebio, Storia Ecclesiastica, II, 14). Egli inoltre ricorda come, a Roma, sotto l'impero di Nerone, Paolo venne decapitato e Pietro crocifisso (Eusebio, Storia Ecclesiastica, II, 25).


    Girolamo (347-420) scrive che "Simon Pietro venne a Roma per debellare Simon Mago …occupò a Roma la cattedra episcopale per 25 anni, fino all'ultimo anno di Nerone …..fu crocifisso con il capo all'ingiù e i piedi rivolti verso l'alto, dichiarandosi indegno di venir crocifisso come il suo Signore" (Gli uomini illustri I).
Circa il martirio di Pietro e Paolo a Roma, le testimonianze materiali come quelle letterarie sono numerose. Clemente Romano terzo Papa, nella sua lettera ai Corinzi del 96, porta l’esempio di pazienza degli Apostoli che furono catturati a causa di invidie gelosie e discordie, quindi processati e uccisi "insieme ad una folla di eletti". Pietro, secondo lo storico Eusebio sulla base di uno scritto di Origene, venne crocifisso come gli altri cristiani nel circo di Caligola sulle pendici del colle Vaticano tra il 64 e il 67, crocifisso a testa in giù e sepolto in una tomba terragna nella necropoli esistente lungo il circo. Paolo venne decapitato nella stessa persecuzione sulla via Ostiense e sepolto nella necropoli sulla quale nel 386 venne costruita la basilica costantiniana.
Sulla tomba dei due apostoli sorse subito un piccolo monumento, una memoria, di cui parla il prete Gaio nel II secolo: "In Vaticano e sulla Via Ostiense, ti mostrerò i trofei (tombe gloriose) di coloro che hanno fondato questa Chiesa". Un discorso che è criterio guida per individuare la linea della retta tradizione mentre esprime la coscienza che la Chiesa di Roma si fonda sulla testimonianza e sul martirio dei due apostoli.


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⚠️⚠️⚠️ 𝗗𝗔 𝗟𝗘𝗚𝗚𝗘𝗥𝗘 𝗘 𝗠𝗘𝗗𝗜𝗧𝗔𝗥𝗘 𝗖𝗢𝗡 𝗔𝗧𝗧𝗘𝗡𝗭𝗜𝗢𝗡𝗘: 𝗨𝗡𝗔 𝗩𝗘𝗥𝗔 𝗣𝗘𝗥𝗟𝗔 𝗗𝗜 𝗗𝗢𝗡 𝗗𝗢𝗟𝗜𝗡𝗗𝗢 ⚠️⚠️⚠️


*** 𝗟'𝗢𝗕𝗕𝗘𝗗𝗜𝗘𝗡𝗭𝗔 𝗔𝗟 𝗣𝗔𝗣𝗔 𝗦𝗘𝗖𝗢𝗡𝗗𝗢 𝗣𝗔𝗗𝗥𝗘 𝗗𝗢𝗟𝗜𝗡𝗗𝗢 ***


L’𝙚𝙡𝙚𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙙𝙞 𝙪𝙣 𝙋𝙖𝙥𝙖 ha 𝙙𝙪𝙚 𝙚𝙡𝙚𝙢𝙚𝙣𝙩𝙞 preponderanti: 𝙦𝙪𝙚𝙡𝙡𝙤 𝙪𝙢𝙖𝙣𝙤 𝙚 𝙦𝙪𝙚𝙡𝙡𝙤 𝙙𝙞𝙫𝙞𝙣𝙤, gli uomini che eleggono e Dio che sceglie e sanziona. Quando gli uomini sono timorati di Dio e fanno appello non alle passioni ma al Signore, allora 𝙀𝙜𝙡𝙞 𝙞𝙣𝙩𝙚𝙧𝙫𝙞𝙚𝙣𝙚 𝙥𝙚𝙧 𝙚𝙡𝙚𝙜𝙜𝙚𝙧𝙚 𝙙𝙞𝙧𝙚𝙩𝙩𝙖𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙞𝙡 𝙨𝙪𝙘𝙘𝙚𝙨𝙨𝙤𝙧𝙚 𝙙𝙞 𝙎. 𝙋𝙞𝙚𝙩𝙧𝙤, e risponde alle preghiere che gli uomini gli fanno liberamente, illuminandoli. 

𝙌𝙪𝙖𝙣𝙙𝙤 𝙡’𝙚𝙡𝙚𝙢𝙚𝙣𝙩𝙤 𝙪𝙢𝙖𝙣𝙤 𝙛𝙤𝙧𝙢𝙖, 𝙥𝙚𝙧 𝙘𝙤𝙨𝙞̀ 𝙙𝙞𝙧𝙚, 𝙪𝙣’𝙖𝙩𝙢𝙤𝙨𝙛𝙚𝙧𝙖 𝙢𝙖𝙡𝙚𝙤𝙙𝙤𝙧𝙖𝙣𝙩𝙚, 𝙖𝙙𝙙𝙚𝙣𝙨𝙖𝙩𝙖 𝙙𝙖𝙡𝙡’𝙪𝙢𝙖𝙣𝙖 𝙡𝙞𝙗𝙚𝙧𝙩𝙖̀, 𝙦𝙪𝙖𝙣𝙙𝙤 𝙜𝙡𝙞 𝙪𝙤𝙢𝙞𝙣𝙞 𝙣𝙤𝙣 𝙛𝙖𝙣𝙣𝙤 𝙖𝙥𝙥𝙚𝙡𝙡𝙤 𝙖 𝙇𝙪𝙞, 𝙢𝙖 𝙨𝙞 𝙖𝙜𝙞𝙩𝙖𝙣𝙤 𝙣𝙚𝙡𝙡𝙚 𝙡𝙤𝙧𝙤 𝙥𝙖𝙨𝙨𝙞𝙤𝙣𝙞, 𝙞𝙡 𝙎𝙞𝙜𝙣𝙤𝙧𝙚 𝙣𝙤𝙣 𝙞𝙣𝙩𝙚𝙧𝙫𝙞𝙚𝙣𝙚 𝙣𝙚𝙡 𝙥𝙧𝙞𝙢𝙤 𝙢𝙤𝙢𝙚𝙣𝙩𝙤 𝙙𝙚𝙡𝙡’𝙚𝙡𝙚𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚, 𝙥𝙚𝙧𝙢𝙚𝙩𝙩𝙚 𝙡𝙤𝙧𝙤 𝙙𝙞 𝙤𝙥𝙚𝙧𝙖𝙧𝙚 𝙘𝙤𝙢𝙚 𝙫𝙤𝙜𝙡𝙞𝙤𝙣𝙤, 𝙚𝙙 𝙞𝙣𝙩𝙚𝙧𝙫𝙞𝙚𝙣𝙚 𝙞𝙣 𝙪𝙣 𝙨𝙚𝙘𝙤𝙣𝙙𝙤 𝙢𝙤𝙢𝙚𝙣𝙩𝙤 𝙘𝙤𝙨𝙩𝙞𝙩𝙪𝙚𝙣𝙙𝙤 𝙇𝙪𝙞 𝙡’𝙚𝙡𝙚𝙩𝙩𝙤 𝙘𝙝𝙚 𝙜𝙡𝙞 𝙪𝙤𝙢𝙞𝙣𝙞 𝙝𝙖𝙣𝙣𝙤 𝙫𝙤𝙡𝙪𝙩𝙤 𝙚𝙙 𝙝𝙖𝙣𝙣𝙤 𝙢𝙚𝙧𝙞𝙩𝙖𝙩𝙤.

L’elezione pone il Papa in quella serie ininterrotta dei successori di S. Pietro, nei quali è tanto preponderante la luce della suprema potestà che 𝙩𝙪𝙩𝙩𝙚 𝙡𝙚 𝙢𝙞𝙨𝙚𝙧𝙞𝙚 𝙞𝙣𝙙𝙞𝙫𝙞𝙙𝙪𝙖𝙡𝙞 𝙣𝙤𝙣 𝙝𝙖𝙣𝙣𝙤 𝙖𝙡𝙘𝙪𝙣 𝙥𝙚𝙨𝙤. Il Pastore supremo allora è come quelle lampade macchiate e polverose nel loro involucro esterno che diventano luce smagliante appena, chiuso il circuito, sono immesse nella corrente che le rende illuminazione per gli altri e guida sicura nel tortuoso cammino. È sempre il rispetto all’umana libertà che campeggia in ogni disposizione della Divina Provvidenza, anche quando si tratta dell’elezione del Capo della Chiesa: è forse, in questo caso, l’espressione più alta di questo rispetto ineffabile di Dio per le sue creature.

Questo che diciamo risolve una delle più gravi difficoltà, tanto nell’elezione dei Papi, quanto nella nomina dei Vescovi, posti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio. 𝙇’𝙪𝙢𝙖𝙣𝙖 𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙨𝙞 𝙨𝙢𝙖𝙧𝙧𝙞𝙨𝙘𝙚, 𝙣𝙤𝙣 𝙨𝙖 𝙘𝙖𝙥𝙞𝙧𝙚 𝙘𝙤𝙢𝙚 𝙥𝙤𝙨𝙨𝙖 𝙙𝙞𝙧𝙨𝙞 𝙥𝙤𝙨𝙩𝙤 𝙙𝙖𝙡𝙡𝙤 𝙎𝙥𝙞𝙧𝙞𝙩𝙤 𝙎𝙖𝙣𝙩𝙤 𝙪𝙣 𝙋𝙖𝙨𝙩𝙤𝙧𝙚 𝙞𝙣𝙙𝙚𝙜𝙣𝙤, 𝙚𝙙 𝙚̀ 𝙩𝙚𝙣𝙩𝙖𝙩𝙖 𝙙𝙞 𝙧𝙞𝙗𝙚𝙡𝙡𝙖𝙧𝙨𝙞 𝙖𝙡𝙡’𝘼𝙪𝙩𝙤𝙧𝙞𝙩𝙖̀. 𝙈𝙖 𝙖𝙣𝙘𝙝𝙚 𝙪𝙣 𝙋𝙖𝙨𝙩𝙤𝙧𝙚 𝙩𝙧𝙖𝙫𝙞𝙖𝙩𝙤, 𝙢𝙚𝙨𝙨𝙤 𝙨𝙪𝙡𝙡𝙖 𝙨𝙪𝙖 𝙘𝙖𝙩𝙩𝙚𝙙𝙧𝙖 𝙨𝙚𝙘𝙤𝙣𝙙𝙤 𝙞 𝙘𝙖𝙣𝙤𝙣𝙞 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝘾𝙝𝙞𝙚𝙨𝙖, 𝙚̀ 𝙥𝙤𝙨𝙩𝙤 𝙙𝙖𝙡𝙡𝙤 𝙎𝙥𝙞𝙧𝙞𝙩𝙤 𝙎𝙖𝙣𝙩𝙤, 𝙘𝙤𝙣𝙨𝙚𝙜𝙪𝙚𝙣𝙩𝙚𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚, 𝙥𝙚𝙧𝙘𝙝𝙚́ 𝙚̀ 𝙡’𝙚𝙨𝙥𝙧𝙚𝙨𝙨𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙙𝙞 𝙪𝙣𝙖 𝙡𝙞𝙗𝙚𝙧𝙩𝙖̀, 𝙘𝙝𝙚 𝘿𝙞𝙤 𝙣𝙚𝙡𝙡’𝙞𝙣𝙛𝙞𝙣𝙞𝙩𝙖 𝙨𝙪𝙖 𝙙𝙚𝙡𝙞𝙘𝙖𝙩𝙚𝙯𝙯𝙖 𝙧𝙞𝙨𝙥𝙚𝙩𝙩𝙖 𝙨𝙞𝙣𝙤 𝙖𝙡𝙡𝙤 𝙨𝙘𝙧𝙪𝙥𝙤𝙡𝙤, 𝙨𝙚 𝙥𝙪𝙤̀ 𝙙𝙞𝙧𝙨𝙞 𝙘𝙤𝙨𝙞̀. 𝙎𝙖𝙧𝙚𝙗𝙗𝙚 𝙨𝙩𝙤𝙡𝙩𝙤 𝙚 𝙥𝙚𝙘𝙘𝙖𝙢𝙞𝙣𝙤𝙨𝙤 𝙧𝙞𝙛𝙞𝙪𝙩𝙖𝙧𝙚 𝙥𝙚𝙧𝙘𝙞𝙤̀ 𝙡’𝙤𝙗𝙗𝙚𝙙𝙞𝙚𝙣𝙯𝙖 𝙖 𝙘𝙝𝙞 𝙧𝙖𝙥𝙥𝙧𝙚𝙨𝙚𝙣𝙩𝙖 𝘿𝙞𝙤, 𝙘𝙤𝙣 𝙡𝙖 𝙨𝙘𝙪𝙨𝙖 𝙘𝙝𝙚, 𝙙𝙖𝙩𝙖 𝙡𝙖 𝙨𝙪𝙖 𝙞𝙣𝙙𝙚𝙜𝙣𝙞𝙩𝙖̀, 𝙣𝙤𝙣 𝙚̀ 𝙥𝙤𝙨𝙨𝙞𝙗𝙞𝙡𝙚 𝙘𝙝𝙚 𝙨𝙞𝙖 𝙨𝙩𝙖𝙩𝙤 𝙚𝙡𝙚𝙩𝙩𝙤 𝙙𝙞𝙧𝙚𝙩𝙩𝙖𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙥𝙚𝙧 𝙙𝙞𝙫𝙞𝙣𝙖 𝙞𝙡𝙡𝙪𝙢𝙞𝙣𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚. 𝙌𝙪𝙖𝙣𝙙𝙤 𝙞𝙡 𝙋𝙖𝙨𝙩𝙤𝙧𝙚 𝙨𝙪𝙥𝙧𝙚𝙢𝙤 𝙚̀ 𝙘𝙤𝙨𝙩𝙞𝙩𝙪𝙞𝙩𝙤 𝙨𝙚𝙘𝙤𝙣𝙙𝙤 𝙞 𝙘𝙖𝙣𝙤𝙣𝙞 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝘾𝙝𝙞𝙚𝙨𝙖, 𝙘𝙞𝙤̀ 𝙘𝙝𝙚 𝙞𝙣𝙛𝙡𝙪𝙞̀ 𝙨𝙪𝙡𝙡𝙖 𝙨𝙪𝙖 𝙚𝙡𝙚𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙚̀ 𝙖𝙘𝙘𝙞𝙙𝙚𝙣𝙩𝙖𝙡𝙚 𝙖𝙡𝙡𝙖 𝙨𝙪𝙖 𝙡𝙚𝙜𝙞𝙩𝙩𝙞𝙢𝙞𝙩𝙖̀, 𝙚𝙙 𝙖 𝙣𝙤𝙞 𝙣𝙤𝙣 𝙧𝙞𝙢𝙖𝙣𝙚 𝙘𝙝𝙚 𝙤𝙗𝙗𝙚𝙙𝙞𝙧𝙚.

Del resto 𝙖𝙣𝙘𝙝𝙚 𝙨𝙤𝙩𝙩𝙤 𝙋𝙖𝙥𝙞 𝙢𝙚𝙣𝙤 𝙨𝙖𝙣𝙩𝙞, e sotto Pastori meno retti, 𝙨𝙤𝙣𝙤 𝙜𝙚𝙧𝙢𝙞𝙣𝙖𝙩𝙞 𝙞 𝙎𝙖𝙣𝙩𝙞 𝙣𝙚𝙡𝙡𝙖 𝘾𝙝𝙞𝙚𝙨𝙖, anche i più grandi Santi. Questo significa che chi vuole, può attingere l’acqua salutare anche da un condotto deteriorato. Dio, che è infinita bontà, non viene meno con i suoi aiuti neppure ad un indegno, e lo rende canale di grazie singolari per le anime rette che cercano Lui solo. Egli passa allora come raggio di sole attraverso la stessa nebbia delle umane miserie, e giunge a riscaldare ed a fecondare l’umile pianticella che vuole prosperare.

𝘾𝙝𝙚 𝙞𝙢𝙥𝙤𝙧𝙩𝙖 𝙘𝙝𝙚 𝙡’𝙪𝙤𝙢𝙤 𝙘𝙝𝙚 𝙧𝙖𝙥𝙥𝙧𝙚𝙨𝙚𝙣𝙩𝙖 𝙞𝙡 𝙥𝙤𝙩𝙚𝙧𝙚 𝙙𝙞𝙫𝙞𝙣𝙤 𝙨𝙞𝙖 𝙧𝙚𝙥𝙧𝙚𝙣𝙨𝙞𝙗𝙞𝙡𝙚? 𝙇𝙖 𝙥𝙤𝙩𝙚𝙨𝙩𝙖̀ 𝙘𝙝𝙚 𝙚𝙜𝙡𝙞 𝙝𝙖, 𝙚̀ 𝙩𝙖𝙣𝙩𝙤 𝙨𝙚𝙥𝙖𝙧𝙖𝙩𝙖 𝙚 𝙙𝙞𝙨𝙩𝙞𝙣𝙩𝙖 𝙙𝙖𝙡𝙡𝙖 𝙨𝙪𝙖 𝙫𝙞𝙩𝙖, 𝙚̀ 𝙜𝙚𝙢𝙢𝙖 𝙘𝙝𝙚 𝙣𝙤𝙣 𝙥𝙚𝙧𝙙𝙚 𝙞𝙡 𝙨𝙪𝙤 𝙫𝙖𝙡𝙤𝙧𝙚, 𝙨𝙤𝙡 𝙥𝙚𝙧𝙘𝙝𝙚́ 𝙚̀ 𝙨𝙚𝙥𝙤𝙡𝙩𝙖 𝙞𝙣 𝙪𝙣𝙖 𝙩𝙚𝙧𝙧𝙖 𝙗𝙧𝙪𝙡𝙡𝙖. È più grande la nostra fede quando onoriamo Dio in uno che ottenebra la potestà che ha ricevuto, è più profondo e meritorio l’ossequio della nostra sudditanza, ed è più fecondo di beni soprannaturali per noi. Lasciamo dunque al Signore il giudizio degli uomini, e curviamo la fronte innanzi alla loro potestà, quando ci rappresenta la potestà di Dio.


𝘋𝘰𝘯 𝘋𝘰𝘭𝘪𝘯𝘥𝘰 𝘙𝘶𝘰𝘵𝘰𝘭𝘰, 𝘥𝘢𝘭 “𝘊𝘰𝘮𝘮𝘦𝘯𝘵𝘰 𝘢𝘭 𝘭𝘪𝘣𝘳𝘰 2 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘦 𝘊𝘳𝘰𝘯𝘢𝘤𝘩𝘦”.


Don Dolindo Ruotolo - Gesù pensaci tu! - Jezu, Ty się tym zajmij!


Fulvio Festosi


IMMINENTE RITORNO DEL SIGNORE

 


“Neppure i sacerdoti si domandarono:

“Dov’è il Signore?”.

Gli esperti nella legge non mi hanno conosciuto, i pastori si sono ribellati contro di me, i profeti hanno profetato in nome di Baal e hanno seguito idoli che non aiutano” (Ger 2, 8. Bibbia CEI 2008).


La maggior parte dei canonisti ritiene che il Romano Pontefice, qualora incorresse in una o più eresie(1) manifeste e notorie, ipso facto (questa formula latina viene impiegata in relazione agli effetti giuridici che si producono in modo automatico e inevitabile al verificarsi di un certo fatto) decadrebbe dal suo ufficio e perderebbe ogni potestà, perché non svolgerebbe più la sua funzione di principio e fondamento visibile dell'unità della fede cattolica e della comunione ecclesiale (cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, nn. 18 e 22-23; Nota Explicativa Praevia alla Lumen gentium, n. 2; Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. “Pastor aeternus” de Ecclesia Christi, “Prologus de institutione et fundamento Ecclesiae”: DS 3051(2)): in buona sostanza, perderebbe il suo ufficio primaziale, non essendo più in comunione innanzitutto con Cristo (cfr. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 11, a. 1, co.) e quindi con gli altri Vescovi e il resto della Chiesa universale, atteso che, come Pietro e gli altri Apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico Collegio, così, per analoga ragione e quindi per diritto divino, il Romano Pontefice e i Vescovi devono essere tra loro congiunti, come sancito dal canone 330 del Codice di Diritto Canonico (CIC) entrato in vigore nel 1983:

“Sicut, statuente Domino, sanctus Petrus et ceteri Apostoli unum Collegium constituunt, pari ratione Romanus Pontifex, successor Petri, et Episcopi, successores Apostolorum, inter se coniunguntur” (can. 330 CIC 1983; cfr. Lumen gentium, n. 22) e dal canone 333, § 2: “Romanus Pontifex, in munere supremi Ecclesiae Pastoris explendo, communione cum ceteris Episcopis immo et universa Ecclesia semper est coniunctus; ipsi ius tamen est, iuxta Ecclesiae necessitates, determinare modum, sive personalem sive collegialem, huius muneris exercendi” (can. 333, § 2 CIC 1983; cfr. Lumen gentium, n. 22 e Nota Explicativa Praevia alla Lumen gentium, n. 3).

Pur essendo inconfutabilmente vero che il Romano Pontefice (il quale per diritto divino gode del primato di giurisdizione(3): v. Conc. Ecum. Vat. I, Pastor aeternus, cit.: DS 3059 ss. e can. 331) può sempre esercitare liberamente la sua potestà ordinaria(4) suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che per missio divina riceve da Cristo, in quanto successore di Pietro, e non dai Cardinali elettori (che designano la persona, ma non le conferiscono tale potestà) o dal Collegio dei Vescovi, che egli presiede (v. i cann. 331; 332, § 1 e cfr. Nota Explicativa Praevia alla Lumen gentium, n. 1), non dimentichiamo che deve esercitarla entro i limiti del “ius divinum, sive naturale sive positivum” (per usare una celebre espressione risalente al pensiero di Francisco Suárez), cioè del “diritto divino, sia naturale(5) sia positivo(6)” (la menzionata triade suaresiana venne recepita anche dal Codice pio-benedettino del 1917 e in minor misura dal CIC 1983: cfr. il can. 27, § 1 CIC 1917, corrispondente al can. 24, § 1 CIC 1983, e il can. 1509, n. 1 CIC 1917, corrispondente al can. 199, n. 1 CIC 1983), e quindi, come ho ricordato sopra, deve esercitarla, per il diritto divino stesso, in comunione con gli altri Vescovi (in qualità di “Collegii Episcoporum caput”, vale a dire di “capo del Collegio dei Vescovi”), anzi con tutta la Chiesa (“immo et universa Ecclesia”, come leggiamo nel § 2 del can. 333 CIC 1983), ancorché il Romano Pontefice abbia il diritto di determinare, secondo le necessità della Chiesa, il modo, sia personale sia collegiale, di esercitare il suo munus (v. il can. 333, § 2 citato sopra) e, in forza di detto munus, non dipenda, in questo libero esercizio della sua potestà ordinaria, dagli altri Vescovi, come si evince chiaramente dal citato can. 331: “Ecclesiae Romanae Episcopus, in quo permanet munus a Domino singulariter Petro, primo Apostolorum, concessum et successoribus eius transmittendum, Collegii Episcoporum est caput, Vicarius Christi atque universae Ecclesiae his in terris Pastor; qui ideo vi muneris sui suprema, plena, immediata et universali in Ecclesia gaudet ordinaria potestate, quam semper libere exercere valet” (can. 331 CIC 1983; cfr. Lumen gentium, n. 22b; Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Christus Dominus, n. 2a e Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, nn. 9 e 12b).

Se le fantasiose e interessate congetture in merito ai termini munus e ministerium, che hanno cominciato a circolare diffusamente dopo la rinuncia di Benedetto XVI al ministerium “di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro” (quindi, inequivocabilmente, al ministero petrino e all'annesso primato di giurisdizione(3)), annunciata nella Declaratio dell'11 febbraio 2013, vi hanno disorientato e desiderate un po' di chiarezza sul significato e l'uso di questi termini (e del vocabolo officium) nel CIC 1917, nei documenti del Conc. Ecum. Vat. II e soprattutto nel CIC 1983, vi consiglio, en passant, la lettura del più accurato, fino ad oggi, studio magistrale in argomento: Péter Erdő, “Ministerium, munus et officium in Codice Iuris Canonici”, in Periodica de re morali canonica liturgica, Vol. LXXVIII (1989), N. 4, Pontificia Universitas Gregoriana, Roma 1989, pp. 411-436. Questo breve saggio, che va letto per intero, esordisce con le seguenti parole: “Ministerium, munus et officium sunt vocabula non parva ex parte synonyma”, che letteralmente significano: “Ministerium, munus e officium sono vocaboli in non piccola parte sinonimi” (Péter Erdő, op. loc. cit., p. 411).

Il teologo Karl Rahner, commentando il n. 22 della Costituzione dogmatica Lumen gentium, scrive che “la Commissione Teologica del Concilio ha respinto la proposta del Papa stesso [Paolo VI] di dire in questo articolo che il papa nel suo agire è «uni Deo devinctus»(7), come superflua e tale da semplificare la verità (Schema del 3.7.1964, p. 93), con la motivazione: «Romanus Pontifex enim etiam observare tenetur ipsam Revelationem, structuram fundamentalem Ecclesiae, sacramenta, definitiones priorum Conciliorum etc. Quae omnia enumerari nequeunt»(8)” (Karl Rahner, La gerarchia nella Chiesa. Commento al capitolo III di Lumen Gentium, trad. it. di G. Colombi, Morcelliana, Brescia 2008, p. 40; cfr. Congr. per la Dottrina della Fede, Dich. Il Primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa, n. 7) e, poche righe dopo, si fa portavoce dell'opinione autorevole, ma molto ingenua, secondo cui “in ultima istanza, non ha alcun senso argomentare, contro il primato e contro la dottrina, delimitata in questa Costituzione, sulla struttura sinodale della Chiesa, che, secondo tale dottrina, il papa “potrebbe” insomma insomma fare comunque tutto da solo e praticamente escludere il collegio episcopale. A un’argomentazione del genere v’è semplicemente da replicare: sì, egli “può”, ma non lo farà. Contro un tale agire il cattolico non richiede più una norma giuridica di cui rivendicare l’attuazione, ma confida nella potenza della grazia e dello Spirito di Dio nella Chiesa, analogamente al modo in cui il cristiano evangelico si colloca di fronte alla possibilità che la sua libera teologia “possa” condurre al sovvertimento assoluto dei dogmi fondamentali del cristianesimo (ivi, p. 41; cfr. Lumen gentium, n. 25; Conc. Ecum. Vat. I, Pastor aeternus, cit.: DS 3070-3071; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 892; Congr. per la Dottrina della Fede, Dich. Il Primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa, nn. 8-10; cann. 750 e 752(9)).

Non reputo utile soffermarmi ulteriormente su siffatte argomentazioni, perché la storia ha già provveduto da sola a confutarle.

Comunque un Papa in carica, anche se eretico, scismatico o apostata, a norma del diritto canonico vigente, non può essere giudicato da nessuno e quindi non può essere deposto da nessuno: chi desidera averne contezza non ha che da leggere il can. 1404, anziché seguire le opinioni di pubblicisti/e del tutto incompetenti (ma desiderosi/e di affermarsi): “Prima Sedes a nemine iudicatur”(10) (can. 1404 CIC 1983).

I canonisti Franz Xaver Wernz e Pedro Vidal argomentano validamente che un Papa eretico “[...] potestate sua privari non potest per meram sententiam declaratoriam [corsivi originali]” (Ius Canonicum, auctore P. Francisco Xav. Wernz S.I., ad Codicis Normam Exactum opera P. Petri Vidal S.I., Tomus II - De Personis, Editio Tertia, a P. Philippo Aguirre S.I. recognita, apud Aedes Universitatis Gregorianae, Roma 1943, p. 518), vale a dire che “non può essere privato della sua potestà per mezzo di una mera sentenza dichiarativa”, in quanto “omnis sententia iudicialis privationis supponit iurisdictionem superiorem in illum contra quem fertur sententia” (ibid.), cioè in quanto “ogni sentenza giudiziale di privazione presuppone una giurisdizione superiore a quella di colui contro il quale la sentenza è pronunciata”: pertanto neppure un Concilio Generale potrebbe deporre il Romano Pontefice, qualora egli cadesse in eresia, perché una sentenza dichiarativa del Concilio che lo privasse della sua potestà sarebbe una sentenza pronunciata da un'autorità inferiore a quella del Papa regnante, dato che quest'ultimo, prima di tale sentenza, godrebbe ancora del primato di giurisdizione (cfr. ibid.; Conc. Ecum. Vat. I, Pastor aeternus, cit.: DS 3063; cann. 333, § 3; 338-341 e 1366 CIC 1983).

Ricordo che spetta unicamente al Romano Pontefice convocare il Concilio Ecumenico (che egli presiede personalmente o per mezzo di altri, come previsto dal § 1 del can. 338) e determinare le questioni da trattare in esso (v. can. 338, §§ 1 e 2); che hanno forza obbligante solo quelle decisioni del Concilio che siano state approvate, confermate e promulgate dal Papa (v. can. 341, § 1) e che, per avere forza obbligante, devono avere la stessa conferma e promulgazione anche i decreti emanati dal Collegio dei Vescovi, allorquando esso pone un'azione propriamente collegiale secondo un altro modo (“iuxta alium modum”), indotto (“inductum”: si deve fare sempre riferimento al testo ufficiale latino) dal Romano Pontefice o da lui liberamente recepito (v. can 341, § 2 e cfr. can. 337, § 3).


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