Se il Papa è eretico: implicazioni canonistiche in

 


“Neppure i sacerdoti si domandarono:
“Dov’è il Signore?”.
Gli esperti nella legge non mi hanno conosciuto, i pastori si sono ribellati contro di me, i profeti hanno profetato in nome di Baal e hanno seguito idoli che non aiutano” (Ger 2, 8. Bibbia CEI 2008).


La maggior parte dei canonisti ritiene che il Romano Pontefice, qualora incorresse in una o più eresie(1) manifeste e notorie, ipso facto (questa formula latina viene impiegata in relazione agli effetti giuridici che si producono in modo automatico e inevitabile al verificarsi di un certo fatto) decadrebbe dal suo ufficio e perderebbe ogni potestà, perché non svolgerebbe più la sua funzione di principio e fondamento visibile dell'unità della fede cattolica e della comunione ecclesiale (cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, nn. 18 e 22-23; Nota Explicativa Praevia alla Lumen gentium, n. 2; Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. “Pastor aeternus” de Ecclesia Christi, “Prologus de institutione et fundamento Ecclesiae”: DS 3051(2)): in buona sostanza, perderebbe il suo ufficio primaziale, non essendo più in comunione innanzitutto con Cristo (cfr. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 11, a. 1, co.) e quindi con gli altri Vescovi e il resto della Chiesa universale, atteso che, come Pietro e gli altri Apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico Collegio, così, per analoga ragione e quindi per diritto divino, il Romano Pontefice e i Vescovi devono essere tra loro congiunti, come sancito dal canone 330 del Codice di Diritto Canonico (CIC) entrato in vigore nel 1983:
“Sicut, statuente Domino, sanctus Petrus et ceteri Apostoli unum Collegium constituunt, pari ratione Romanus Pontifex, successor Petri, et Episcopi, successores Apostolorum, inter se coniunguntur” (can. 330 CIC 1983; cfr. Lumen gentium, n. 22)
e dal canone 333, § 2:
“Romanus Pontifex, in munere supremi Ecclesiae Pastoris explendo, communione cum ceteris Episcopis immo et universa Ecclesia semper est coniunctus; ipsi ius tamen est, iuxta Ecclesiae necessitates, determinare modum, sive personalem sive collegialem, huius muneris exercendi” (can. 333, § 2 CIC 1983; cfr. Lumen gentium, n. 22 e Nota Explicativa Praevia alla Lumen gentium, n. 3).
Pur essendo inconfutabilmente vero che il Romano Pontefice (il quale per diritto divino gode del primato di giurisdizione(3): v. Conc. Ecum. Vat. I, Pastor aeternus, cit.: DS 3059 ss. e can. 331) può sempre esercitare liberamente la sua potestà ordinaria(4) suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che per missio divina riceve da Cristo, in quanto successore di Pietro, e non dai Cardinali elettori (che designano la persona, ma non le conferiscono tale potestà) o dal Collegio dei Vescovi, che egli presiede (v. i cann. 331; 332, § 1 e cfr. Nota Explicativa Praevia alla Lumen gentium, n. 1),
non dimentichiamo che deve esercitarla entro i limiti del “ius divinum, sive naturale sive positivu (per usare una celebre espressione risalente al pensiero di Francisco Suárez), cioè del “diritto divino, sia naturale(5) sia positivo(6)” (la menzionata triade suaresiana venne recepita anche dal Codice pio-benedettino del 1917 e in minor misura dal CIC 1983: cfr. il can. 27, § 1 CIC 1917, corrispondente al can. 24, § 1 CIC 1983, e il can. 1509, n. 1 CIC 1917, corrispondente al can. 199, n. 1 CIC 1983), e quindi, come ho ricordato sopra, deve esercitarla, per il diritto divino stesso, in comunione con gli altri Vescovi (in qualità di “Collegii Episcoporum caput”, vale a dire di “capo del Collegio dei Vescovi”), anzi con tutta la Chiesa (“immo et universa Ecclesia”, come leggiamo nel § 2 del can. 333 CIC 1983), ancorché il Romano Pontefice abbia il diritto di determinare, secondo le necessità della Chiesa, il modo, sia personale sia collegiale, di esercitare il suo munus (v. il can. 333, § 2 citato sopra) e, in forza di detto munus, non dipenda, in questo libero esercizio della sua potestà ordinaria, dagli altri Vescovi, come si evince chiaramente dal citato can. 331:
“Ecclesiae Romanae Episcopus, in quo permanet munus a Domino singulariter Petro, primo Apostolorum, concessum et successoribus eius transmittendum, Collegii Episcoporum est caput, Vicarius Christi atque universae Ecclesiae his in terris Pastor; qui ideo vi muneris sui suprema, plena, immediata et universali in Ecclesia gaudet ordinaria potestate, quam semper libere exercere valet” (can. 331 CIC 1983; cfr. Lumen gentium, n. 22b; Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Christus Dominus, n. 2a e Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, nn. 9 e 12b).
Se le fantasiose e interessate congetture in merito ai termini munus e ministerium, che hanno cominciato a circolare diffusamente dopo la rinuncia di Benedetto XVI al ministerium “di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro” (quindi, inequivocabilmente, al ministero petrino e all'annesso primato di giurisdizione(3)), annunciata nella Declaratio dell'11 febbraio 2013, vi hanno disorientato e desiderate un po' di chiarezza sul significato e l'uso di questi termini (e del vocabolo officium) nel CIC 1917, nei documenti del Conc. Ecum. Vat. II e soprattutto nel CIC 1983, vi consiglio, en passant, la lettura del più accurato, fino ad oggi, studio magistrale in argomento: Péter Erdő, “Ministerium, munus et officium in Codice Iuris Canonici”, in Periodica de re morali canonica liturgica, Vol. LXXVIII (1989), N. 4, Pontificia Universitas Gregoriana, Roma 1989, pp. 411-436. Questo breve saggio, che va letto per intero, esordisce con le seguenti parole: “Ministerium, munus et officium sunt vocabula non parva ex parte synonyma”, che letteralmente significano: “Ministerium, munus e officium sono vocaboli in non piccola parte sinonimi” (Péter Erdő, op. loc. cit., p. 411).
Il teologo Karl Rahner, commentando il n. 22 della Costituzione dogmatica Lumen gentium, scrive che “la Commissione Teologica del Concilio ha respinto la proposta del Papa stesso [Paolo VI] di dire in questo articolo che il papa nel suo agire è «uni Deo devinctus»(7), come superflua e tale da semplificare la verità (Schema del 3.7.1964, p. 93), con la motivazione: «Romanus Pontifex enim etiam observare tenetur ipsam Revelationem, structuram fundamentalem Ecclesiae, sacramenta, definitiones priorum Conciliorum etc. Quae omnia enumerari nequeunt»(8)” (Karl Rahner, La gerarchia nella Chiesa. Commento al capitolo III di Lumen Gentium, trad. it. di G. Colombi, Morcelliana, Brescia 2008, p. 40; cfr. Congr. per la Dottrina della Fede, Dich. Il Primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa, n. 7) e, poche righe dopo, si fa portavoce dell'opinione autorevole, ma molto ingenua, secondo cui “in ultima istanza, non ha alcun senso argomentare, contro il primato e contro la dottrina, delimitata in questa Costituzione, sulla struttura sinodale della Chiesa, che, secondo tale dottrina, il papa “potrebbe” insomma insomma fare comunque tutto da solo e praticamente escludere il collegio episcopale. A un’argomentazione del genere v’è semplicemente da replicare: sì, egli “può”, ma non lo farà. Contro un tale agire il cattolico non richiede più una norma giuridica di cui rivendicare l’attuazione, ma confida nella potenza della grazia e dello Spirito di Dio nella Chiesa, analogamente al modo in cui il cristiano evangelico si colloca di fronte alla possibilità che la sua libera teologia “possa” condurre al sovvertimento assoluto dei dogmi fondamentali del cristianesimo (ivi, p. 41; cfr. Lumen gentium, n. 25; Conc. Ecum. Vat. I, Pastor aeternus, cit.: DS 3070-3071; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 892; Congr. per la Dottrina della Fede, Dich. Il Primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa, nn. 8-10; cann.  750 e 752(9)).
Non reputo utile soffermarmi ulteriormente su siffatte argomentazioni, perché la storia ha già provveduto da sola a confutarle.
Comunque un Papa in carica, anche se eretico, scismatico o apostata, a norma del diritto canonico vigente, non può essere giudicato da nessuno e quindi non può essere deposto da nessuno: chi desidera averne contezza non ha che da leggere il can. 1404, anziché seguire le opinioni di pubblicisti/e del tutto incompetenti (ma desiderosi/e di affermarsi):
“Prima Sedes a nemine iudicatur”(10) (can. 1404 CIC 1983).

I canonisti Franz Xaver Wernz e Pedro Vidal argomentano validamente che un Papa eretico “[...] potestate sua privari non potest per meram sententiam declaratoriam [corsivi originali]” (Ius Canonicum, auctore P. Francisco Xav. Wernz S.I., ad Codicis Normam Exactum opera P. Petri Vidal S.I., Tomus II - De Personis, Editio Tertia, a P. Philippo Aguirre S.I. recognita, apud Aedes Universitatis Gregorianae, Roma 1943, p. 518), vale a dire che “non può essere privato della sua potestà per mezzo di una mera sentenza dichiarativa”, in quanto “omnis sententia iudicialis privationis supponit iurisdictionem superiorem in illum contra quem fertur sententia” (ibid.), cioè in quanto “ogni sentenza giudiziale di privazione presuppone una giurisdizione superiore a quella di colui contro il quale la sentenza è pronunciata”: pertanto neppure un Concilio Generale potrebbe deporre il Romano Pontefice, qualora egli cadesse in eresia, perché una sentenza dichiarativa del Concilio che lo privasse della sua potestà sarebbe una sentenza pronunciata da un'autorità inferiore a quella del Papa regnante, dato che quest'ultimo, prima di tale sentenza, godrebbe ancora del primato di giurisdizione (cfr. ibid.; Conc. Ecum. Vat. I, Pastor aeternus, cit.: DS 3063; cann. 333, § 3; 338-341 e 1366 CIC 1983).
Ricordo che spetta unicamente al Romano Pontefice convocare il Concilio Ecumenico (che egli presiede personalmente o per mezzo di altri, come previsto dal § 1 del can. 338) e determinare le questioni da trattare in esso (v. can. 338, §§ 1 e 2); che hanno forza obbligante solo quelle decisioni del Concilio che siano state approvate, confermate e promulgate dal Papa (v. can. 341, § 1) e che, per avere forza obbligante, devono avere la stessa conferma e promulgazione anche i decreti emanati dal Collegio dei Vescovi, allorquando esso pone un'azione propriamente collegiale secondo un altro modo (“iuxta alium modum”), indotto (“inductum”: si deve fare sempre riferimento al testo ufficiale latino) dal Romano Pontefice o da lui liberamente recepito (v. can 341, § 2 e cfr. can. 337, § 3).

“La più grave crisi nella storia della Chiesa”

“Un dovere di coscienza come cattolico”. Il professor Claudio Pierantoni spiega così la sua decisione di sottoscrivere la Lettera aperta ai vescovi che muove a papa Francesco l’accusa di eresia. Lo fa in un’articolata intervista di Diane Montagna per LifeSiteNews e che il professore ha gentilmente inviato a Duc in altum nella versione italiana.
“Io ritengo – dice il professore nel corso dell’intervista – che la Chiesa stia attraversando la più grave crisi non solo dalla Riforma protestante, ma in tutta la sua storia”.
Claudio Pierantoni è nato a Roma nel 1965. Laureato in lettere classiche con una tesi in Letteratura cristiana antica, ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia del cristianesimo nella stessa Università di Roma “La Sapienza” con una tesi sull’eresia apollinarista, e un dottorato in Filosofia nella Universidad de Los Andes di Santiago del Cile, con una tesi sulla definizione della verità e l’esistenza di Dio in Sant’ Agostino, Sant’ Anselmo e Tommaso d’Aquino. Ha insegnato Storia della Chiesa e Patrologia nella facoltà di Teologia della Pontificia Universidad Católica de Chile e attualmente insegna Filosofia medievale nella Universidad de Chile. Si è dedicato soprattutto alla storia della filosofia e teologia dell’epoca patristica e medievale. In questi ultimi anni ha pubblicato diversi articoli e interviste sulla presente crisi dottrinale della Chiesa.
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Professor Pierantoni, che cosa l’ha spinta a firmare la lettera aperta che accusa papa Francesco del delitto di eresia e chiama i vescovi della Chiesa cattolica a indagare sulle accuse?
In primo luogo, un dovere di coscienza come cattolico. Come dice la Lettera, questo atto segue alla pubblicazione di un documento su Amoris Laetitia, firmato da 45 studiosi nel 2016, in cui si metteva in rilievo la grave ambiguità di molti passi, che nel loro senso più ovvio e naturale sembravano eretici. Poi, l’anno seguente, 2017, con un gruppo più ampio, arrivato a 250 studiosi, abbiamo pubblicato la Correctio filialis de haeresibus propagatis (“Correzione filiale sulla propagazione di eresie”) quando è stato chiaro da vari atti e affermazioni del Papa che i passi ambigui di AL andavano senz’altro intesi in senso eretico. Finalmente, durante l’ultimo periodo, si è ampiamente confermata la volontà del papa di imporre una certa linea di cambiamento rivoluzionario della morale sessuale e matrimoniale, soprattutto mediante le nomine di prelati favorevoli a tale rivoluzione in posti di rilievo del governo della Chiesa. Quindi, ormai siamo arrivati a quello stadio di affermazione dell’eresia che è appropriato chiamare “ostinata” o “pertinace”. Di qui la necessità di ricorrere ai vescovi per rimediare a questa situazione tragica per la fede: la situazione di un papa che cade nell’eresia.
Anche Lei ha partecipato alla stesura del documento? 
Sì, ho fatto parte del gruppo di discussione da cui è (faticosamente) emersa la versione definitiva. La lettera è stata scritta inizialmente da un unico autore, ma è stata poi ampiamente discussa per posta elettronica in un piccolo gruppo per circa quattro mesi, e sono stati realizzati numerosi emendamenti.
Il riassunto della lettera aperta afferma: “La presente lettera aperta ai vescovi della Chiesa cattolica fa un passo avanti [rispetto alla Correzione filiale] nel sostenere che papa Francesco è colpevole del delitto di eresia”. Molti cattolici potrebbero trovare questo linguaggio nuovo o strano. In che senso l’eresia è un “delitto”? E come può il Papa essere colpevole di eresia, data la promessa del Signore di essere sempre con la sua Chiesa?
Un delitto è un’azione che lede un diritto altrui. I fedeli cattolici hanno diritto a che i vescovi custodiscano e insegnino pubblicamente la retta dottrina della Chiesa, senza ambiguità né cambiamenti o novità. Il concetto di Tradizione, o depositum fidei, è molto preciso nella Chiesa cattolica: non è un generico amore del passato o rispetto della saggezza degli antenati, ma un impegno molto più specifico. Così come, nel contratto di deposito, il depositario è tenuto a restituire al depositante esattamente quello che ha ricevuto, né più, né meno, così il vescovo nella Chiesa deve consegnare intatto ai fedeli quanto ha ricevuto in consegna dagli Apostoli, i quali lo hanno ricevuto direttamente da Cristo. E ha il dovere di vigilare che nessun’altro lo alteri o contamini con dottrine estranee. Questo dovere vale in modo specialissimo per il vescovo di Roma, a cui Cristo stesso ha dato il primato in questa azione di pascere e custodire il suo gregge. La frase di Gesù Cristo a Pietro, riportata dal discepolo amato: “Pasci le mie pecorelle”, ripetuta tre volte (Giovanni 21,15-19), si può leggere scritta a lettere d’oro, di enormi dimensioni, su tutta la cornice interna della base della cupola di San Pietro. Venir meno a questo dovere per tanto è per il papa non solo “un” delitto, ma il più grave dei delitti, perché mette in pericolo la salvezza delle anime. Esso fa venir meno la sua stessa essenza come Pastore e per questo, di fatto, egli rinuncia al suo ruolo come tale. I vescovi che riconoscono questo fatto non “depongono” il Papa, perché il Papa non può essere deposto: essi prendono solamente atto del fatto che il Papa è spontaneamente decaduto dal suo ufficio. In linguaggio giuridico, diciamo che l’atto dei vescovi avrebbe natura puramente dichiarativa.
Di quali eresie è accusato papa Francesco nella lettera? Qual è a suo parere la più rilevante?
Si tratta di sette proposizioni: le prime sei sono in relazione con AL e la famosa disputa sulla Comunione ai divorziati che convivono in una nuova unione more uxorio. Per poter affermare che è lecito dare la Comunione a questa categoria di persone sarebbero percorribili due strade. La prima sarebbe quella di negare l’indissolubilità del matrimonio. Questa strada fu tentata in alcuni studi che precedettero e accompagnarono i due sinodi sulla Famiglia (2014-2015), ma fu confutata efficacemente, e quindi tale strategia fu di fatto abbandonata. L’altra strada è quella di affermare che, pur rimanendo il matrimonio indissolubile, vi sono casi in cui sarebbero ugualmente lecite le relazioni sessuali fuori del matrimonio legittimo. Quindi, dovendo riassumere, direi che l’eresia principale risiede proprio in questa dottrina, che viene oggi chiamata “morale di situazione”, che nega che vi siano atti che per loro natura sono intrinsecamente cattivi, e quindi in nessun caso possono essere considerati leciti. Una volta accettata questa dottrina, non solo è a rischio il dogma del matrimonio indissolubile, ma l’intera etica cristiana, e non solo essa, ma l’intera etica naturale. Infatti, in base a questa dottrina potremmo affermare, per esempio, che l’aborto è sì un delitto, ma in certi casi è lecito; che l’assassinio di un innocente è sbagliato, ma non in certi casi; che la tortura è immorale, ma in particolari circostanze potrebbe essere lecita; che le relazioni omosessuali attive sono peccaminose, ma non in certi casi, e così via. Si tratta quindi di una vera “bomba atomica”, che distrugge interamente l’etica, come la ha appropriatamente definita il Prof. Josef Seifert in un articolo breve ma – è il caso di dirlo – esplosivo. (“Does pure Logic threaten to destroy the entire moral Doctrine of the Catholic Church?” http://aemaet.de/index.php/aemaet/article/view/44/pdf_1)
È importante sottolineare che la lotta a questo errore, appunto l’“etica di situazione”, è stata una delle priorità assolute del pontificato di Giovanni Paolo II, a cui egli ha dedicato uno dei suoi documenti più importanti, la Veritatis splendor. È per questo che molte migliaia fra i cattolici più seri e impegnati – e non solo qualche sparuta frangia di estremisti o ultraconservatori, come si vorrebbe far credere (https://www.reuters.com/article/us-pope-heresy/conservatives-want-catholic-bishops-to-declare-pope-a-heretic-idUSKCN1S73KE) – si sono sentiti traditi da questo nuovo indirizzo inaugurato da Bergoglio, che minaccia appunto di vanificare uno dei legati più importanti del santo Papa polacco. È per questo che anche Benedetto XVI, nei sui Appunti pubblicati proprio qualche settimana fa, ha sottolineato con forza proprio questo come l’errore principale della teologia morale degli ultimi sessant’anni. È certo una coincidenza provvidenziale che questi Appunti siano usciti quasi simultaneamente con la nostra lettera.
Molte persone potrebbero chiedersi quale autorità abbia un gruppo di sacerdoti e studiosi laici per accusare il Papa – il Vicario di Cristo – di eresia. Come risponde?
Noi non rivendichiamo alcuna autorità particolare, salvo la competenza teologica necessaria a svolgere questo studio per mettere in luce una situazione di fatto, che lede un diritto fondamentale di tutti i fedeli cattolici. Il Codice di Diritto Canonico attribuisce a tutti i fedeli, in proporzione alla loro competenza, il diritto di prendere la parola in quanto ritengono necessario farlo per segnalare una difficoltà o un problema nella Chiesa. (Can. 212 §3. In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità della persona).
Non incorriamo neppure, come qualcuno ha affermato (per esempio il P. Thomas Petri OP), nella proibizione di ricorrere al Concilio Ecumenico o al Collegio dei Vescovi contro un atto del Romano Pontefice, pure registrata dal Codice di diritto Canonico (can. 1372). Infatti, qui non si tratta di ricorrere ai vescovi per sovvertire un atto del Pontefice nel governo della Chiesa, come se questi fossero un’autorità superiore, che è quello che è vietato dal canone, ma della situazione gravissima, in cui si deve prendere atto del fatto che il Pontefice stesso è caduto in eresia, cosa che è segnalata espressamente dalla tradizione canonica come una delle tre causali di perdita dell’ufficio papale. Come spieghiamo nell’appendice sulla perdita dell’ufficio papale, non si tratta di deporre il papa, ma solo di dichiarare che egli spontaneamente ha rinunciato al papato mediante la sua adesione all’eresia. Ancora meno contravveniamo al Canone 1373, che punisce coloro che “suscitano pubblicamente rivalità e odi da parte dei sudditi contro la Sede Apostolica […] per un atto di potestà o di ministero ecclesiastico, o eccitano i sudditi alla disobbedienza nei suoi confronti […]”. Al contrario, noi sosteniamo la dignità della Sede Apostolica desiderando che il suo occupante sia libero dall’eresia.
Questo gruppo di chierici e studiosi accusa papa Francesco di essere un eretico formale? Se è così, perché non gli avete prima presentato le accuse in privato, dandogli la possibilità di rispondere (anche se una risposta è improbabile). Questo non fa parte del dovuto procedimento? Mi risulta che la Congregazione per la Dottrina della Fede lo fa con qualsiasi teologo sospettato di eresia, quindi, perché non dovrebbe essere data al Papa la possibilità di spiegarsi?
Prima di tutto, vorrei distinguere tra l’accusa di eresia e la dichiarazione formale che qualcuno è un eretico da parte dell’autorità competente: l’accusa di essere un eretico è una cosa, la sentenza che lo dichiara formalmente tale è un’altra, e che non spetta a noi emettere, ma proprio ai vescovi a cui abbiamo rivolto la lettera aperta. Ora, se usiamo l’espressione “eresia formale”, distinta da “eresia materiale”, nel senso che la persona che la sostiene è consapevole che si tratta di una proposizione contraria a un insegnamento della fede cattolica, e non la difende per pura ignoranza della fede stessa, allora diciamo che stiamo parlando di eresia “formale” in questo senso. Tuttavia, questa deve ancora essere distinta dalla situazione di una persona che è già stata ammonita dall’autorità competente in merito all’incompatibilità della sua dottrina con la fede cattolica: questo, naturalmente, non è ancora avvenuto per il Papa, poiché nessuna autorità lo ha ancora formalmente ammonito: quindi, in questo senso, la sua posizione non è quella di “eresia formale”, e tale ammonimento è proprio l’oggetto della nostra richiesta ai vescovi.
Ora noi presentiamo queste accuse, dopo che un ampio numero di avvertenze sono già state presentate privatamente al Papa, molte più di quanto sarebbe stato sufficiente ed equo. Infatti, questo è già stato fatto nelle censure teologiche presentategli da vari di noi nel 2016 (prima privatamente); poi con i dubia (anch’essi previamente presentati in privato), poi con la Correctio filialis (2017), anch’essa presentata direttamente nelle sue mani un mese intero prima della pubblicazione. Ma questa è solo una parte della storia. Papa Francesco è stato avvertito di questi errori da molti vescovi e cardinali e anche studiosi laici, già durante i Sinodi sulla famiglia; poi, dopo la stesura di AL, dalle molte correzioni venute dalla CDF, tutte rifiutate. Poi da una serie di articoli, libri e lettere aperte di importanti autori. Di fronte a tutte queste avvertenze, domande, libri, articoli, lettere e correzioni, il Papa ha avuto tutto il tempo e il materiale per riflettere ed eventualmente rispondere. Ma invece, ha scelto chiaramente e coscientemente la strada di ignorarle del tutto. In una risposta data in un incontro con i gesuiti l’anno scorso qui in Cile, ha affermato testualmente che questi critici lui “non li legge”, perché non trova in essi “bontà spirituale”, e si limita a “pregare per loro” (citato ora in: https://www.repubblica.it/vaticano/2019/05/02/news/la_lettera-appella_che_accusa_il_papa_di_eresia_-225306534/?fbclid=IwAR3U-e7DtZk10ntc5lMMXOXgkwNKCHrCldSkOtdGfXSL4u0svu1rcYzraDs.)
Resta da spiegare come sia informato che i critici non abbiano bontà spirituale, dato che non li legge. Comunque, da parte nostra lo ringraziamo per le sue preghiere, che ricambiamo. Ma siamo purtroppo costretti a registrare che, dunque, si tratta proprio di una chiusura volontaria ed ostinata ad ascoltare queste critiche, che giustifica ampiamente la nostra accusa di eresia “pienamente cosciente e pertinace”, benché nel senso limitato, che può essere applicato a una persona che non è stata ancora ammonita formalmente, come ho spiegato prima. Tuttavia questo non significa affatto che noi rivendichiamo l’autorità necessaria per emanare una sentenza e quindi dichiarare formalmente l’eresia di una qualsiasi persona, quindi nemmeno del Papa; anzi, benché sia già di per sé ovvio, ci siamo preoccupati di dichiarare espressamente il contrario (cf. pag. 15). Quindi non è affatto vero, come per esempio ha affermato il P. Brian Harrison nel suo ultimo articolo (tra altre inesattezze), che noi “saltiamo direttamente alla conclusione che il Papa è formalmente un eretico, e sollecitiamo i vescovi del mondo a trattarlo come tale” (“to jump straight to the conclusion that he’s a formal heretic, and urge the world’s bishops to treat him as such”: https://thewandererpress.com/catholic/news/frontpage/why-i-didnt-sign-the-open-letter-accusing-the-pope-of-heresy/)
Questo non è esatto. Ciò che noi facciamo è semplicemente presentare un’accusa, accompagnata dalle prove che riteniamo necessarie e sufficienti: spetterà poi all’autorità competente, in questo caso appunto i vescovi, vagliare le prove, ammonire convenientemente il Papa, dargli la possibilità di una ritrattazione, e solo dopo di ciò, emanare la sentenza. E queste accuse non le presentiamo affatto alla leggera, bensì, come ho già detto, dopo aver aspettato vari anni, in cui è già stata presentata una lunga serie di avvisi, lettere e correzioni previe.
In ogni caso, sia che il giudizio abbia effettivamente luogo durante la vita del Papa, oppure no, un’accusa che si presenta fondata su una serie cospicua di prove e testimonianze è comunque degna di essere presa in considerazione da qualsiasi persona seria che si preoccupi del bene della Chiesa, a cominciare dal principale interessato.
Che effetto pensa che avrà ora che la parola “eresia” è stata apertamente usata in riferimento a Papa Francesco? Quale effetto avevate previsto prima di decidere di firmare la lettera aperta?
Bene, avevamo previsto che parecchie persone, anche tra quelle che sono in sintonia con le nostre opinioni e che sono, per così dire, dalla nostra parte in questa vasta controversia, avrebbero trovato tale accusa esagerata. In effetti, vari autori hanno sostenuto che ciò è stato controproducente, perché rende la nostra causa più vulnerabile. Molti buoni teologi infatti continuano a sostenere che i testi di Francesco, anche se molto problematici, non possono essere condannati per eresia perché sono troppo ambigui. Ma io smentisco questa affermazione: in effetti, sostengo che i testi di Francesco, in particolare quelli del capitolo VIII di AL, sono sí ondivaghi e tortuosi, ma il loro obiettivo è chiaro: il Papa voleva permettere a coppie non regolarmente sposate di ricevere la Comunione in certi casi: questo è più che sicuro. E ha ufficialmente confermato la sua intenzione con la sua risposta ai vescovi argentini, di cui ha ordinato l’inclusione negli Atti della Sede Apostolica (AAS). Questo è un fatto storico e, inoltre, è in perfetta consonanza con troppi elementi della storia di questo pontificato, per essere ragionevolmente messo in dubbio. Ora, per trovare una giustificazione a questo, il Papa era destinato ad entrare in contraddizione con la dottrina cattolica: o con la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio, oppure con la dottrina secondo cui alcune azioni sono sempre e in ogni caso proibite, perché sono intrinsecamente cattive (intrinsece mala). Avendo evitato il primo percorso, era destinato a cadere nell’altro. Era una necessità logica, e così si è trovato fatalmente in una contraddizione frontale con la dottrina solennemente confermata da Veritatis Splendor. Questa è una posizione espressa con chiarezza più che sufficiente in AL, come hanno già dimostrato molti teologi nelle loro analisi. E a questo errore, tutte le prime sei delle nostre proposizioni sono necessariamente correlate. (Sul settimo aggiungeremo un commento fra poco). Quindi, è del tutto scorretto affermare che la nostra accusa è esagerata. Non siamo di fronte a una confutazione razionale della nostra posizione (che non è stata data) ma solo al timore psicologico delle terribili conseguenze che verrebbero dall’ammettere l’eresia del Papa, che impedisce a molti buoni teologi di affrontare la dura verità.
I firmatari sostengono un legame tra il rifiuto di dottrine cattoliche da parte di Papa Francesco, con il favore che ha mostrato a vescovi e ad altri sacerdoti che si sono resi colpevoli di peccati e delitti sessuali o che li hanno coperti. Può dare l’esempio più eclatante?
Probabilmente, il caso più impressionante è quello del Card. Rodríguez Maradiaga, di cui fra l’altro si segnala che: “Si è rifiutato di indagare le accuse di molestie sessuali di indole omosessuale presentate da 48 dei 180 seminaristi del seminario dell’Honduras, e si è anzi scagliato contro gli accusatori. Papa Francesco ha nominato Maradiaga membro e coordinatore del consiglio di nove cardinali da lui formato nel 2013 per assisterlo nel governo della Chiesa universale.” In questa sola vicenda, è chiara l’inclinazione decisamente criminale di un personaggio che il Papa insiste nel mantenere fra i suoi più stretti collaboratori.
Ma, più ancora che un singolo personaggio, quello che impressiona è il numero dei prelati che avendo occultato, o perfino perpetrato personalmente gravi delitti, sono stati promossi dal Papa ad incarichi della più alta responsabilità nella Chiesa. Come bene ha affermato l’arcivescovo Viganò, basterebbe una sola di queste scandalose promozioni a giustificare le dimissioni da parte del papa. Comunque, nel caso della nostra lettera, noi le usiamo principalmente come prove del fatto che il papa non sembra ritenere particolarmente gravi queste mancanze, e procede alle necessarie censure solo quando è obbligato dalle circostanze, in particolare dalla pressione delle autorità civili.
La Chiesa sta attraversando la sua peggiore crisi dai tempi della Riforma protestante? 
Io ritengo che la Chiesa stia attraversando la più grave crisi non solo dalla Riforma protestante, ma in tutta la sua storia. Basterà osservare che è la prima volta nella storia che un papa viene accusato di eresia in maniera così massiccia, su un’intera serie di dottrine così importanti. Come ho già osservavo in precedenti interviste e articoli, i paragoni con gli esempi del passato, come quello del papa Liberio, di Onorio, o di Giovanni XXII, non reggono minimamente il confronto. Nel caso di Liberio si trattava di una formula di fede trinitaria, che il papa fu obbligato con la forza a firmare dal partito imperiale filoariano, in un’epoca in cui la formula trinitaria stessa non era ancora definitivamente stabilita, e quindi vi erano ancora molte incertezze terminologiche. Nel caso di Onorio si trattava di un’unica formula dottrinale sul problema delle due volontà di Cristo, problema che era dibattuto proprio al suo tempo e quindi soffriva anch’esso di un margine di incertezza terminologica; nel caso di Giovanni XXII, si trattava della negazione della dottrina della immediata visione beatifica dopo la morte: una dottrina importante, certo, ma non così vitale e centrale come le dottrine che qui discutiamo.
Nel caso di Francesco, si ha la netta impressione che egli voglia relativizzare l’intera dottrina cattolica, soprattutto nei temi dell’etica familiare e matrimoniale, come abbiamo detto, ma anche nel tema importantissimo della relazione del Cattolicesimo con le altre religioni, come affermiamo nella nostra settima proposizione. Questo è venuto in luce nel recente documento di Abu Dhabi, ma forse ancora più drammaticamente, nella continua affermazione che i cattolici non devono “fare proselitismo”, nel senso che non devono preoccuparsi assolutamente di convincere o convertire in nessun modo i non cattolici alla vera fede. Si tratta di una posizione che, in pratica, si avvicina molto all’indifferentismo religioso.
Molti cattolici impegnati, e anche osservatori esterni, hanno l’impressione che il papa – pur affermando certamente alcune dottrine cattoliche – in fondo non sia veramente cattolico. È interessante che l’agenzia Reuters, nella conclusione della sua nota sulla nostra lettera, parlando di questo tema, affermi: “I conservatori dicono che la Chiesa cattolica Romana è l’unica vera e che i suoi membri sono chiamati a convertire gli altri ad essa” (“Conservatives say the Roman Catholic Church is the only true one and that members are called to convert others to it.” https://www.reuters.com/article/us-pope-heresy/conservatives-want-catholic-bishops-to-declare-pope-a-heretic-idUSKCN1S73KE).





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